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“Vedere tuo figlio, così piccolo, già avvolto dai cavi, è devastante”: mamma racconta la terapia intensiva neonatale

Valeria Fabbiani ha raccontato a Fanpage.it i 14 giorni che hanno seguito la nascita del suo bambino, durante i quali lei e suo marito sono rimasti in terapia intensiva ad aspettare che il bimbo stesse bene e potesse tornare a casa. Il personale dell’Ospedale Macedonio Melloni, con estrema cura ed empatia ha seguito la coppia ascoltandola e prendendosi cura del loro bambino.
A cura di Sophia Crotti
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terapia intensiva neonatale

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La prima volta che Valeria Fabbiani ha visto il suo bambino si trovava immerso tra i cavi colorati, che percorrevano quel piccolo corpicino dal capo ai piedi, in una stanza tra i corridoi in penombra della terapia intensiva neonatale (TIN) dell'Ospedale Macedonio Melloni di Milano.

Una gravidanza desiderata tantissimo la sua, arrivata al terzo tentativo di PMA, quando le speranze iniziavano a venire meno, e accolta con tutto l'amore che lei e il suo compagno erano in grado di dare a quel bambino.

Il piccolo Leonardo è venuto al mondo dopo un periodo, che i medici non riescono a quantificare, di sofferenza fetale e quando Valeria, che era sotto sedazione, lo ha sentito piangere per la prima volta, non lo ha potuto prendere in braccio né vedere.

Che la situazione fosse molto complessa, però, le è stato immediatamente chiaro quando ha visto gli occhi di suo marito riempirsi di lacrime. I due sono stati accolti dal personale empatico e comprensivo della tin dell'Ospedale Melloni, che li ha accompagnati nei 14 giorni più lunghi della loro vita, in cui sono rimasti ad aspettare di poter accarezzare e prendere in braccio il loro bambino.

Vivere in quel luogo fatto di sospensione tra la gioia immensa della nascita di un bambino e il terrore di poterlo perdere, ha permesso loro di iniziare a guardare la vita con occhi diversi: "Oggi Leonardo sta bene e conta solo questo, in quelle settimane difficili abbiamo capito che quando un bimbo sta male passa tutto in secondo piano e nulla è importante, solo lui lo è".

Partiamo dall’inizio, come è stato scoprire di essere incinta?

Io ho scoperto di essere incinta circa un anno fa, il 20 di giugno, dopo un percorso di PMA abbastanza lungo, fatto di vari tentativi. Al terzo tentativo, però, sono arrivate le tanto attese due lineette sul test di gravidanza.

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E la gravidanza come è andata?

La gestazione è andata bene a parte la nausea, che mi ha accompagnato fino alla fine della gravidanza. Per le visite e il parto mi sono affidata all’ospedale di Vizzolo Predabissi, perché lì c’era la mia ginecologa con la quale mi trovavo molto bene.

Come è stato il parto?

Io ho iniziato ad avere le contrazioni e a stare male, diversi giorni prima del parto, quindi mi sono recata in ospedale dove il personale però non ha potuto fare molto perché non ero dilatata.

Sono tornata in pronto soccorso il lunedì mattina successivo, già stremata per il dolore e ho iniziato il travaglio il giorno successivo. Il martedì attorno alle 3.30 del mattino ho iniziato ad avere la febbre alta e dunque, dopo avermi dato degli antibiotici, mi hanno fatto iniziare a spingere. Abbiamo provato in tutti i modi, ostetrica e ginecologa mi hanno fatto mettere in diverse posizioni, ma il bimbo non ne voleva sapere di incanalarsi. A quel punto dal tracciato è stato evidente che ci fosse una forte sofferenza fetale e mi hanno detto che avremmo dovuto fare immediatamente un cesareo, anche perché il liquido amniotico era molto scuro.

Io ero stremata dal dolore, dalla preoccupazione e dalla stanchezza, mentre mi tagliavano ho anche sentito dolore, nonostante l'epidurale, quindi mi hanno fatto un’altra dose di antidolorifici e mi sono addormentata.

Poi come è stato veder nascere il tuo bimbo?

Ad un certo punto ho sentito piangere Leonardo e ho iniziato a dire “è mio figlio, è nato, datemelo”, ma nessuno mi rispondeva. Il piccolo è stato subito portato via e allora ho iniziato a dirmi nella mente che forse ero ancora sotto effetto di farmaci e che quindi quel pianto me lo ero immaginato, oppure che stavo parlando troppo a bassa voce per essere sentita.

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Mi hanno riportata in sala parto e mi hanno detto che dovevo stare tranquilla, che il bimbo era da un’altra parte, in mani sicure.

È arrivato mio marito in sala parto con gli occhi pieni di lacrime ed io in tanti anni di relazione non l'avevo mai visto piangere. Mi ha detto che Leonardo doveva andare all’Ospedale Melloni, io mi spavento molto, ma lui mi mi ha detto ancora una volta di stare tranquilla e io mi sono fidata.

Sono rimasta in terapia intensiva un giorno e poi l’indomani mi hanno trasferita all’Ospedale Melloni, dove sono arrivata totalmente ignara di ciò che stava accadendo a mio figlio. Ero straziata, il mio bimbo era nato e non lo avevo né toccato né visto.

Quando hai capito che Leonardo era in terapia intensiva?

Una volta che sono arrivata all'ospedale Macedonio Melloni. Lì la neonatologa dell’ospedale mi ha spiegato tutta la situazione, che mio marito non mi aveva ancora illustrato perché ero lontana dal mio bambino, e non voleva farmi agitare. Leonardo si trovava in terapia intensiva neonatale perché aveva avuto sofferenza fetale, avendo inalato il meconio nel pancione, che gli aveva otturato le vie aeree, era nato senza battito cardiaco e senza respirare, i medici lo avevano dunque dovuto rianimare immediatamente e portarlo poi d’urgenza al Melloni.

La neonatologa mi ha anche spiegato che ai medici non era stato possibile stabilire per quanto tempo mio figlio non avesse respirato, e che quindi seppur il piccolo era stato rianimato molto bene, solo il tempo avrebbe rivelato eventuali problemi cognitivi. E io, che mi sono vista tutta questa realtà cadermi addosso, sono scoppiata a piangere. I medici però erano molto fiduciosi, si sentivano di dire che avrebbe avuto una buona ripresa.

Come è stato vedere per la prima volta il tuo bimbo?

Io ho visto il mio bimbo la prima volta in un'incubatrice, con un sondino per mangiare, gli elettrodi attaccati alla testa, il catetere vescicale, un termometro per la temperatura, un cateterino nell’ombelico per i liquidi, l’accesso venoso ed è stato uno strazio.

Per 4 giorni abbiamo potuto solo guardarlo, senza toccarlo o prenderlo in braccio, perché lo avremmo potuto scaldare e lui stava facendo una terapia per preservare lo stato cerebrale a bassissime temperature. Il quarto giorno, poi, abbiamo potuto dargli la manina, dopo una settimana ho potuto allattarlo e mi è arrivata la montata lattea.

Come è stato questo avvicinamento così lento e graduale al bambino?

È stato strano, mentre ero incinta mi sarei immaginata tutt’altro, non vedevo l’ora di vedere Leonardo perché ero cresciuta con il falso mito che una volta nato, mi sarei dimenticata di tutto il dolore che avevo vissuto durante il parto.

Io il dolore ho continuato a provarlo e in più non ho visto il mio bambino. Averlo poi visto in mezzo ai cavi, lontano da noi è stato traumatico, perché mi sentivo impotente, ma per fortuna già da un anno e mezzo stavo affrontando un percorso psicologico, che mi ha molto aiutata.

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Io sono sempre stata una persona molto ansiosa che necessitava di avere tutto sotto controllo, la terapia mi ha aiutato a capire che anche davanti al mio bambino in quello stato era inutile arrovellarmi nel tentativo di  trovare una soluzione, dovevo rimanere lì e pensare al mio bambino, perché preoccuparmi eccessivamente non avrebbe cambiato o migliorato le cose. Ho vissuto le cose per come venivano. E ancora così viviamo oggi, tra qualche anno potrebbero emergere dei ritardi nell’apprendimento o nel linguaggio, ma è inutile preoccuparsi già ora, quello che verrà lo affronteremo.

Come è stato stare in terapia intensiva?

Stare in terapia intensiva è stato traumatico, ma il team è stato meraviglioso, dai medici, agli infermieri ognuno di loro aveva una parola buona per noi, era in grado di empatizzare con noi e di curare il nostro bambino, anche laddove non potevamo farlo noi. Anche la prima notte quando mio marito era lì da solo, mi ha raccontato che tutti cercavano di rincuorarlo, dicendogli che poteva andare a dormire, se lo desiderava.

Hai quindi percepito questa umanizzazione delle cure in terapia intensiva neonatale?

Sì, l'approccio del team medico è stato molto umano e fondamentale. Io ho potuto fare la kangaroo care, che consiste nel tenere il piccolo in una specie di marsupio, ero molto contenta di poter tenere mio figlio vicino a me, ma senza l’accompagnamento di medici e infermieri non ce l’avrei mai fatta, avevo paura di fare male al bimbo, di staccargli qualche filo e loro sono stati tutti gentilissimi.

E si è creata con gli altri genitori in attesa nelle tin una situazione di empatia?

Assolutamente sì, io ero in stanza con una mamma che stava vivendo la stessa situazione di mio figlio, i nostri bimbi erano vicini di culla e noi abbiamo parlato tantissimo, ci siamo confrontate su ciò che dicevano i medici, e tranquillizzate a vicenda quando l’una o l’altra aveva più paura. Anche oggi siamo rimaste in ottimi rapporti e condividiamo i progressi dei nostri bimbi. Penso che questi rapporti siano una delle cose che ti permettono di sopravvivere a dei dolori così grandi. 

Ci sono stati giorni più difficili da affrontare?

Sì, io ho parlato molto con la caposala, la dottoressa Di Chio, che è stata fantastica con me. Prima di conoscerla pensavo erroneamente che “i pezzi grossi” degli ospedali e dei reparti non avessero tempo per dare retta alle persone, ho capito che non è affatto così. Lei ci fermava, mi ha fatta entrare nel suo studio e lì io le ho raccontato in che fase mi trovassi della mia vita, le ho parlato del fatto che mia madre era morta da poco e ci siamo trovate a piangere insieme.

In ospedale invece ti è capitato di non sentirti capita?

Sì, mi è capitato con un caposala che mi ha detto che ero diventata un costo per l’ospedale e che dovevo lasciare il letto, mi ha anche detto che con i soldi della sua pensione mi stavano pagando il pernottamento in ospedale. Io ero lì per il mio bambino, avrebbe potuto usare altre parole vista la situazione in cui ci trovavamo.

Ma tu sei rimasta in ospedale perché tuo figlio era in tin? è una prassi?

Io ho partorito col cesareo d’urgenza e quindi per forza dovevo rimanere in ospedale qualche giorno in più, ma tecnicamente se il bimbo viene spostato in un altro ospedale in terapia intensiva neonatale, la mamma deve andare con lui.

E tu potevi vedere il bimbo quando volevi?
Sì, sia io che mio marito potevamo rimanere anche tutto il giorno nel reparto di terapia intensiva neonatale, ci assentavamo per mangiare e per riposare, e l’indomani mattina ci trovavamo nella mia stanza e andavamo in reparto insieme.

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Qual è stata la cosa più dolorosa?

Tornare a casa senza il mio bambino è stata la cosa più dura in assoluto, pensavo di non poter intervenire immediatamente, temevo che fosse lì da solo. Ma sapevo che c’erano le infermiere e il personale molto attento a lui.

Come è stato poi riportarlo a casa?

Un’emozione immensa, neanche ci aspettavamo di poterlo portare a casa, non ci avevano detto nulla e non ce lo aspettavamo, appena il piccolo è riuscito a mangiare un po’ di più ci hanno detto che ci avrebbero dimessi. Era il 19 marzo, la festa del papà e questo ha reso tutto ancora più emozionante. Abbiamo deciso di non dire nulla alla famiglia, quando sono poi venuti a casa nostra (grazie a delle scuse che abbiamo usato) erano tutti evidentemente molto emozionati. Ed è stato emozionante anche per noi.

Quanto vi è accaduto ha cambiato un po’ la tua visione della maternità o della vita?

Della maternità no, aver affrontato un percorso di PMA, è stato qualcosa che ho vissuto molto male, ho fatto molta fatica per rimanere incinta e ho sempre avuto paura per la salute del mio bambino. Per quanto riguarda la vita sì, ho capito cos'è davvero importante e cosa no. Mi sono anche accorta che di come stessi io non mi interessava molto, al centro c’era solo il mio bimbo.

E l’ambiente della terapia intensiva neonatale fatta di rumori e paure, ha causato in te incubi o paure?

No, anche perché a dispetto di quanto si pensi è un ambiente molto calmo, è sempre in penombra, non c’è mai forte luce, anche se ci sono le finestre aperte, i corridoi rimangono in penombra. A volte partono dei macchinari e il loro allarme, ma nulla di traumatizzante, addirittura a volte viene messa anche della musica per i bambini. L’esperienza è traumatizzante senza dubbio, ma il luogo non lo è affatto, o almeno per noi non lo è stato.

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