Padre diventa virale praticando la genitorialià gentile: ecco cos’è e perché funziona
Kier Gaines è uno psicoterapeuta di Washington DC e recentemente è diventato virale grazie ad un video postato sul suo profilo Instagram dove spiega alla figlia con voce calma e rassicurante perché, non avrebbe dovuto sentirsi troppo triste o svalutata nonostante una decisione sbagliata.
La bambina, spiega Gaines nella didascalia del post, aveva perso un ‘fun privilige' e si sentiva molto arrabbiata con sé stessa. Si era infatti pentita di non essere andata ad un ballo padre-figlia che poi si era rivelato molto più divertente delle previsioni.
Di fronte allo sconforto della figlia, Gaines ha così deciso di prendere la bimba in disparte e parlarle in modo da aiutarla ad elaborare quel turbinio di emozioni negative.
"Quando prendiamo decisioni sbagliate, sai cosa succede? Ci dà una grande opportunità di imparare da loro" dice Gaines nel video registrato dalla moglie. "Ma non essere cattiva con te stessa per questo. Non te lo meriti".
"È difficile crescere imparando lezioni dure come queste. E tu stai facendo un ottimo lavoro" ha poi proseguito Ganies di fronte alla risposta della figlia, ancora piuttosto frustrata per l'episodio.
"Non è la fine del mondo. Non sei una brutta persona. Non hai fatto nulla di male. Hai fatto quello che pensavi fosse giusto in quel momento. È normale sbagliare qualche volta, è parte dell'essere umano".
Così facendo Gaites è riuscito a calmare la bimba e, allo stesso tempo, impartirle un piccolo insegnamento sull'accettazione e il superamento dei proprio errori.
Un'autentica lezione di genitorialità gentile (gentle parenging), ossia un approccio pedagogico fondato sull'importanza dell'empatia e del dialogo continuo con i propri figli e che Gaites sembra aver praticato con maestria.
Come si pratica la genitorialità gentile?
Proprio come fatto da Gaines infatti, il genitore ‘gentile' non si erge al di sopra del figlio come una guida autoritaria che si limita a indicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato – eventualmente punendo le trasgressioni – ma pone il bambino e le sue emozioni al centro del discorso educativo, adoperandosi con pazienza per aiutarlo riconoscere ciò che sta provando (rabbia, tristezza, invidia, felicità etc…) e agire in modo da trarne un insegnamento.
Per fare ciò è però importante che l'adulto dimostri al bambino di rispettare le sue sensazioni, senza sminuirle, e stabilisca un contatto per instaurare un dialogo costruttivo.
"I cardini della genitorialità gentile sono l'amore, l'empatia e il rispetto reciproco" spiega a Fanpage.it Miriam Capurso, pedagogista, consulente montessoriana e co-autrice del libro La Genitorialità Gentile.
"Questo approccio si basa sulla relazione con il bambino, il quale viene prima di tutto riconosciuto come un individuo. Non c'è un adulto che educa dall'alto, ma una persona che riconosce la vulnerabilità del piccolo e lo aiuta a comprendere e, soprattutto, a comprendersi".
Un bambino, infatti, non ha gli strumenti per capire tutte le situazioni che vive e le emozioni che prova ogni giorno.
Chi pratica la genitorialità gentile cerca dunque di fornire tali strumenti attraverso la gentilezza e l'esempio. Ciò porta il figlio a fidarsi del genitore e interiorizzare tutte quelle regole di comportamento che dunque non vengono più viste come un'imposizione, ma come un limite naturale tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare.
"Con i bambini si può parlare di tutto e tutto può essere spiegato, anche gli argomenti più complessi come il sesso o la morte" continua Capurso. "L'importante è tenere conto dell'età del bambino e fornirgli informazioni adatte e comprensibili".
Essere gentili significa essere permissivi?
Per i detrattori però, questo stile educativo si traduce spesso in un'eccessiva passività da parte dei genitori, i quali finiscono per darle tutte vinte ai figli pur di non ferirne i sentimenti.
"Questa scelta educativa non è né troppo permissiva, né autoritaria" spiega ancora Capurso. "Si tratta solo di riconoscere nel bambino un'altra persona con cui occorre parlare". Le punizioni però non solo non sono contemplate, ma non sembrano nemmeno necessarie.
"Le punizioni non insegnano. Poniamo per esempio che nostro figlio metta le mani addosso ad compagno di classe. Un comportamento del genere non indica una cattiveria da reprimere, l'incapacità da parte del bimbo d'interagire socialmente e verbalmente con un'altro individuo".
"Anziché urlare e punire dunque, si potrebbe dapprima empatizzare con il compagno ‘offeso' – chiedendogli, ad esempio, come si senta – per poi mettere nostro figlio di fronte a tali emozioni: ‘hai visto che quando lo hai spinto si è messo a piangere? Come ti fa sentire?'. L'ultimo passo sarebbe poi quello di suggerire comportamenti alternativi a quelli adottati".
Attraverso la guida degli adulti e la ripetizione di dialoghi simili, i bambini imparano così a gestire le proprie emozioni e a comportarsi in modo positivo sia nei confronti degli altri che di loro stessi.