Mirco, a 25 anni in cura all’hospice pediatrico: “La medicina per adulti non è pronta a pazienti come mio figlio”
Maria Teresa è la mamma di Mirco, un ragazzo nato con un danno cerebrale da parto, che oggi vive i suoi 25 anni nel corpo di un bambino di 10-12 anni.
Quando 25 anni fa è piombata la diagnosi di Mirco addosso a una giovane coppia alle prese con la nascita del primo figlio, non esisteva nemmeno la possibilità che il bambino venisse preso in carico dalle cure palliative pediatriche, o che la famiglia ricevesse il supporto psicologico necessario a non farla sgretolare.
"La mia famiglia si è distrutta, il papà di Mirco vive a 700 km da casa nostra, io ho lasciato il lavoro per prendermi cura di lui, e per 15 anni mi sono sentita terribilmente sola. Ancora oggi nessuno che mi aiuta ad affrontare il "dopo mio figlio" ".
Poi l'incontro con un medico che oggi è il primario dell'hospice pediatrico dell'Ospedale Gaslini, e una team di esperti sempre disposto ad aiutare Mirco e la sua famiglia, prendendosi in carico la sua malattia e tutto quello che ne concerne.
Oggi Mirco ha 25 anni e come lui sono tanti i ragazzi, che la sua mamma chiama "i nuovi disabili", che sopravvivono a lungo alla paralisi cerebrale, gli ospedali però sembrano non essere ancora pronti a gestire questi pazienti.
"Mio figlio ha una patologia pediatrica, ha il corpo di bambino nonostante i suoi 25 anni, ma ha una piaga da decubito che in pediatria non sanno curare".
La mamma di Mirco ci ha raccontato il difficile passaggio dalle cure palliative pediatriche a quelle adulte, altro tema per il quale la Fondazione Maruzza ETS, di cui Maria Teresa è presidente per la Regione Liguria, si batte da tempo, per suo figlio e la necessità di creare una stretta collaborazione tra i due reparti, in modo da poter curare i pazienti come Mirco.
Maria Teresa, ci racconti la storia di tuo figlio?
Mirco è il mio primo figlio, quindi mi cimentavo per la prima volta con una gravidanza, che però è andata benissimo e non vedevo l’ora di conoscerlo.
Poi verso la fine della gravidanza, essendo il papà di Mirco diabetico, ho dovuto fare dei controlli specifici in più, dei monitoraggi che partivano circa dalla trentaseiesima settimana di gravidanza. Così una mattina, da questi esami emerge che avevo un valore che non era nella norma e il personale decide di ricoverarmi 4 giorni prima della data presunta del termine.
Alla fine rimango una settimana in ospedale, ma i medici sembravano tranquilli, mi dicevano continuamente che era tutto sotto controllo, finché mi dicono che era necessario indurre il parto e nonostante questo mio figlio nasce con un cesareo d’urgenza.
A quel punto i medici si rendono conto che qualcosa non va, Mirco sembrava addormentato, non rispondeva agli stimoli e ad un’ora dalla nascita ha avuto le prime convulsioni, da lì è stato evidente che avesse un danno neurologico.
Vi sono subito state proposte le cure palliative?
No, 25 anni fa erano una fantasia le cure palliative pediatriche. Inizialmente Mirco è stato seguito dall’ospedale in cui è nato, dunque dell’adulto, poi, dopo qualche mese, ci hanno spostati all'ospedale pediatrico, dove siamo stati indirizzati alla neuropsichiatria, perché nonostante Mirco avesse una disabilità gravissima, fino agli 8-9 anni è stato bene.
Attorno i 9 anni Mirco ha iniziato ad avere problemi ad alimentarsi e a deglutire, ma il mio primo incontro con le cure palliative è avvenuto una notte di qualche anno dopo. Mirco ormai aveva 12 anni e gli avevamo da poco messo la pec per alimentarlo a causa delle sue difficoltà a deglutire.
Mi accorgo che mio figlio si contorce per il dolore e non riuscendo a gestire questo suo malessere a casa decido di recarmi con lui al pronto soccorso. Lì ci rimandano alla neuropsichiatria perché associano quel problema di Mirco alle sue crisi, per fortuna un’infermiera mi ha ascoltato ha capito che mio figlio soffriva per il dolore e ha chiamato il medico che in quel momento era di guardia. Quel medico era il dottor Manfredini, che oggi è il primario dell’hospice pediatrico e della terapia del dolore.
Il dottor Manfredini dunque ha capito che Mirco era da cure palliative, così è iniziato il nostro percorso a piccoli passi, inizialmente queste cure consistevano in delle consulenze a cui avevamo accesso durante i ricoveri di Mirco, quando poi è nato l’hospice pediatrico al Gaslini mio figlio è stato preso in carico dalla struttura.
E come hai reagito quando te le hanno proposte?
A dire il vero non sapevo cosa fossero le cure palliative, o meglio non sapevo perché le stessero proponendo a me. Ero convinta che fossero cure a cui avevano accesso i bambini oncologici terminali, una volta vicini al fine vita.
Pensi che abbiano fatto la differenza?
Certo che sì, solo grazie alle cure palliative c’è stata una presa in carico globale di Mirco. Appena mio figlio ha un problema so di poter alzare la cornetta e contattare il centro che mi indirizzerà ad uno specialista.
Mirco ha avuto accesso alle sue terapie, senza che ci fossero incongruenze tra i pareri dei medici, ha ricevuto assistenza domiciliare, periodicamente Mirco viene sottoposto a dei controlli, che gli evitano il ricovero, può fare i prelievi a casa, le visite a casa, e da lì iniziano già a capire di cosa ha bisogno.
Io ho trovato poi una grande competenza di base per indirizzarmi dallo specialista giusto, un’equipe multidisciplinare pronta ad intervenire immediatamente.
Mirco grazie alle cure palliative pediatriche ha vissuto una vita che potremmo definire "normale"?
Certo, la sua qualità di vita è migliorata tantissimo, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista più umano, forse di questa seconda parte mi sono accorta di più io, perché lui ha una patologia troppo grave.
Quello che dico sempre io è che incontrare il dottor Manfredini e più in generale le cure palliative, mi ha permesso di dare una definizione a ciò che avevo sempre cercato per mio figlio: una vita di qualità.
Poi Mirco ha compiuto 18 anni e da paziente pediatrico è diventato adulto, le cure palliative hanno funzionato allo stesso modo?
Mirco ancora oggi è seguito dalle cure palliative pediatriche, perché nonostante abbia 25 anni pesa 27 kg, ha una paralisi cerebrale infantile, che è una patologia pediatrica, ha una struttura fisica di un bambino di 10-12 anni e le competenze cognitive di un neonato, rimanendo dunque a tutti gli effetti un paziente pediatrico.
I suoi 25 anni sono solo anagrafici ma lui ha ancora bisogno di cure pediatriche. I medici cercano di farci passare nel mondo degli adulti, ma con me non ci riusciranno perché il mondo dell’adulto non è pronto per un paziente come Mirco.
Perché la medicina non è pronta a prendersi in carico un paziente che passa dalle cure palliative pediatriche a quelle dell'adulto?
Io combatto dal 2017 perché ci sia una transitional care dall’età pediatrica a quella adulta, che però non c’è. Il motivo è semplice: un tempo un bambino con una paralisi cerebrale infantile arrivava a vivere al massimo 15 anni, e i medici non si ponevano neanche il problema che diventasse un paziente adulto.
Oggi però i farmaci sono cambiati, le conoscenze sono di più, come le competenze mediche e i bambini con una paralisi cerebrale possono vivere tanto, anche fino a 30-40 anni.
Sembra però che il problema del loro passaggio alle cure dell’adulto non se lo sia ancora mai posto nessuno, ma se un tempo questi pazienti erano così pochi che l’ospedale pediatrico riusciva a seguirli, oggi sono così tanti che secondo me ci vorrebbe una branca della medicina dedicata a pazienti come mio figlio, che hanno patologie e strutture pediatriche, ma a volte complicanze tipiche dell’adulto o dell’anziano.
Tuo figlio oggi si trova in questo limbo?
Sì, mio figlio ha da un anno e mezzo una piaga da decubito, tipica delle persone anziane e che nel pediatrico non hanno le competenze per seguire.
Lo stesso vale però per l’adulto: un paio di anni fa mio figlio si è sentito male mentre eravamo a Sestri Levante, lo hanno portato nell’ospedale più vicino, ed era un ospedale dell’adulto, l’infermiera non riusciva neanche a fargli un prelievo, perché non aveva gli aghi adatti e non aveva mai visto un polso di 4 cm di diametro.
E cosa servirebbe?
Noi avevamo proposto alla regione di prorogare l’età del pediatrico, valutando che ci sono dei pazienti che sono intransitabili e non sopravviverebbero nel mondo delle cure per gli adulti.
E poi di creare all’interno di uno dei due istituti, o quello dell’adulto o quello pediatrico, un ambulatorio in cui i ragazzi possano fare dei controlli di routine con una collaborazione tra i medici dell’ospedale pediatrico e quelli dei pazienti adulti.
Dopo una diagnosi così dura, come è stato scoprire che qualcosa si poteva fare?
È stato importantissimo scoprire che esiste una cura, perché quando arriva la diagnosi pensi che non puoi fare nulla, sapere invece che ci sono delle cure palliative alle quali appoggiarsi per me è stato come prendere consapevolezza che invece un passo in avanti si poteva fare.
Poi sono consapevole che non devo essere egoista e pensare che mio figlio debba per forza sopravvivere a ogni cosa, ma l’idea che possa non provare dolore e vivere una vita qualitativamente dignitosa è la cosa più importante.
Grazie alle cure palliative ho imparato che la cosa importante per mio figlio era che stesse bene qui ed ora, domani si vedrà.
Le cure palliative ti hanno aiutato a non sentirti più sola?
Io mi sono sentita sola per 15 anni, perché se mi era chiaro come sarebbe stato il nostro futuro, non esisteva un accompagnamento verso quel futuro, che invece ho trovato grazie alle cure palliative.
Oggi, grazie ad un equipe di esperti sempre disponibili, so cosa spetta a mio figlio, cosa spetta a noi e come affronteremo insieme questo percorso.
Ti stanno aiutando ad affrontare la possibilità che tuo figlio muoia prematuramente?
A proposito di questo tema, io insisto sempre nel dire che si parla tanto del “dopo di noi” e mai del “dopo di loro”. Manca un accompagnamento alla morte dei propri figli.
Ora si sta iniziando, per esempio in hospice c’è l’ambulatorio del lutto e quando ho saputo che lo avevano istituito mi sono sentita sollevata, perché oggi so che quando mio figlio non ci sarà più potrò permettermi di chiudermi lì, in quella stanza, e sbattere la testa contro il muro.
Ma ora mio figlio c’è, e c'è da 25 anni e devo essere consapevole di quello che può accadere da un momento all’altro, tuttavia io non ho mai ricevuto supporto psicologico, nemmeno al momento della diagnosi di mio figlio. Sento però che qualcosa si sta smuovendo e questo mi permette di dire che vedo il futuro più roseo di quanto non sia stato il mio passato.
La famiglia si sfascia quando arriva la malattia di un figlio?
La mia si è distrutta sì, il papà dei miei figli vive a 700 km da noi, ha una sua vita e ogni tanto viene qui. Io ho rinunciato alla mia vita, quando Mirco ha iniziato a stare male e i nonni non erano più in grado di seguirlo ho dovuto lasciare il mio lavoro.
Quando dico che nessuno pensa al "dopo di loro" intendo che quando mio figlio non ci sarà più io dall’essere costantemente impegnata con lui non avrò più niente, non un supporto economico, non un lavoro, proprio nel momento in cui avrò più bisogno di avere la mente impegnata.
Quali sono le difficoltà quotidiane tue e della tua famiglia?
Ho trovato una persona che oggi è mio marito e che si è preso in carico la mia famiglia, ma è tutto così difficile, la gestione di mio figlio, la socialità, perché un figlio gravemente disabile rende difficile tutto, andare al parco con l’altro figlio per esempio porta i genitori a separarsi, per stare l’uno con un figlio, l'altro con l'altro.
I miei amici sanno che la mia famiglia si contraddistingue per la sua prevedibile imprevedibilità, tutto può succedere. Infatti, quando riesco a prendermi un aperitivo con mio marito mi sembra di essere stata in vacanza per una settimana.
Il punto è che la società non ti supporta, servirebbe invece il giusto supporto psicologico ed emotivo, perché siamo una categoria a cui spesso "tappano la bocca con un bonus", ma non basta un bonus se poi non esistono servizi che si occupano di noi, serve del materiale umano per stare dietro a famiglie come la mia.