“Mio figlio merita un futuro gioioso dopo tutta questa sofferenza”: Nela racconta la diagnosi del suo bimbo
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Nela ci ha raccontato cosa significa essere la mamma di un bambino affetto da una patologia grave, come un tumore, e dover lasciare la propria casa, il proprio lavoro, la propria vita e un altro figlio, nel tentativo disperato di trovare una cura.
Il suo bimbo, arrivato dopo 15 anni di attesa, oggi ha quasi 5 anni ed è in cura presso l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, che ha indirizzato la mamma verso l’associazione Peter Pan, che oltre ad organizzare l’animazione tra i reparti si occupa ospitare le famiglie costrette a percorrere in lungo e in largo lo Stivale per curare i propri figli.
“Ho pianto solo quando ci è stata letta la diagnosi, poi non l’ho fatto più, perché mi sono imposta di essere forte per mio figlio, dargli la forza che a volte gli manca e sperare che tutto questo dolore un giorno si trasformi nel riscatto che merita”.
Come è stato scoprire la gravidanza del tuo bambino?
Ho scoperto di aspettare il mio bimbo 3 settimane prima che scoppiasse il covid, quindi era un periodo un po’ particolare ma è stato meraviglioso. Appena ho avuto un ritardo nel ciclo ho fatto un test di gravidanza, la ginecologa ha dovuto contenere la mia gioia dicendomi di aspettare anche gli esiti degli esami del sangue. Ero troppo impaziente perché questa gravidanza io e mio marito l’abbiamo aspettata per tantissimo tempo. Avevamo già un ragazzo di 15 anni, Alessandro, e volevamo dargli un fratellino con cui potesse crescere, ma che tardava ad arrivare.
Come è andata la gravidanza?
Mio figlio aveva fretta di nascere e a 35 settimane di gestazione ha rotto il sacco, i medici a quel punto mi hanno ricoverata per cercare di tenere il bimbo il più a lungo dentro di me, con la giusta dose di liquido amniotico. A 37 settimane però hanno dovuto indurmi il parto, ma il mio bimbo non riusciva a nascere e così hanno scelto per il cesareo. Lui stava benissimo, è nato di 3 kg e non è neanche dovuto stare in terapia intensiva, solo sotto osservazione per una notte.
Quando è arrivata la consapevolezza che qualcosa non andava?
Quando lo abbiamo inserito al nido. Era settembre del 2022, io avevo deciso di riprendere a lavorare e così l’ho iscritto al nido.
Dopo un mese ha iniziato ad avere un po’ di febbre, ma inizialmente pensavo fosse la classica influenza stagionale o che i bimbi stando in contatto tra loro si trasmettono. Alle visite aveva sempre la gola arrossata e spesso gli veniva la febbre. Mi sono anche accorta che aveva un occhio più piccolo e di un altro colore rispetto all’altro.
A questo punto abbiamo fissato una visita oculistica presso l’Ospedale Bambino Gesù, per il mese di febbraio, intanto però l’occhio del mio bimbo iniziava a gonfiarsi e lui aveva la febbre spesso e sempre più alta, quindi siamo andati al pronto soccorso oculistico dove ci hanno consigliato una pomata e l’antibiotico. All’ultimo giorno della cura mi sono accorta, cambiandogli il pannolino, che era molto caldo, gli ho provato la febbre e l’aveva a 40. Siamo tornati in pronto soccorso, hanno fatto al bimbo un’ecografia addominale ma i medici non capivano cosa avesse. Intanto lui perdeva la reattività, vomitava di continuo e aveva questa febbre sempre molto alta. Il lunedì mattina mi ha chiamata il reparto di oculistica per dirmi una frase che non dimenticherò mai: Mattia non è più di nostra competenza, dobbiamo mandarlo in oncologia a Perugia, l’ambulanza partirà alle 12.00.
Come ti sei sentita?
Mi è crollato il mondo addosso, mi è sembrato proprio che le pareti di quella stanza di ospedale si stringessero fino a spezzarsi e a rompersi su di me. Mentre mi avvicinavo alla stanza di mio figlio cercavo di trattenermi, c’erano altre mamme lì in attesa e non volevo spaventarle, non volevo crollare e così far crollare anche loro. Ho raggiunto il mio bimbo, gli ho dato le spalle e con lo sguardo verso la finestra sono scoppiata in un pianto fortissimo. Non mi sembrava vero, mi sentivo la spettatrice di una storia che non era la mia, poi guardavo il mio bimbo e lo vedevo spegnersi.
A questo punto siamo partiti per Perugia, hanno fatto tante visite al bimbo e poi il primario, il dottor Caneglia, ci ha spiegato che erano riusciti ad escludere la leucemia ma che sospettavano qualcosa di molto grave per cui era necessaria una biopsia. In pochissimo tempo hanno fatto l’esame al bimbo, togliendogli dei linfonodi e mandandoli al Gaslini da dove è arrivata la diagnosi definitiva: il piccolo aveva un neuroblastoma in metastasi linfonodale stadio E.
Come ti hanno spiegato la diagnosi?
Ricevere la diagnosi è stata dura ma anche l’unico modo per iniziare le cure per nostro figlio. I medici sono stati schietti e sinceri con noi, ma anche molto umani. Ci hanno detto che il tumore era grave e aggressivo ma che avremmo dovuto ragionare un giorno per volta, capendo anche come il corpo di nostro figlio avrebbe reagito alle cure.
E voi come avete reagito?
Mio marito ha reagito molto male, non riusciva ad accettare che nostro figlio potesse essere malato e si è chiuso nel suo dolore per i primi 6 mesi dalla diagnosi. Ricordo anche di averlo trovato vicino a nostro figlio che piangeva, intento a gridare e tirarsi i capelli. Io invece mi sono solo affidata, la vita di mio figlio era tra le mani dei medici e del Signore ed io avrei accettato tutto, cercando di fare del mio meglio.
Ora dove siete?
A Roma. Dopo che il bimbo ha fatto 80 giorni di chemio e due auto-trapianti ci hanno trasferiti a Roma dove, a differenza di Perugia, c’è la terapia intensiva pediatrica.
Quindi ci siamo trasferiti all’Ospedale Bambino Gesù. Qui ha fatto 3 cicli di chemio e a fine gennaio è stato chiaro che la massa era ancora grande, sono seguite altre cure e il bimbo si è trovato benissimo. La massa diminuiva sempre più, gli hanno fatto la radioterapia, questa volta a Perugia, dove siamo stati un mese per fare le 20 sedute di radio.
Siete attualmente in una delle strutture dell’Associazione Peter Pan, senza avreste potuto garantire al bimbo le stesse cose?
No. Non so neanche se avremmo potuto seguire così bene nostro figlio, quando è arrivata una diagnosi del genere, sapere di dover acquistare anche una casa vicino alla struttura, anche solo in affitto avrebbe voluto dire indebitarci, l’associazione ci ha tolto molte delle nostre paure.
A te serve rimanere lì per entrare in contatto con altri genitori che vivono esperienze simili?
Sì è fondamentale confrontarsi, capire che non si è soli nella sofferenza anche se ogni bambino è a sé. Quando una mamma mi racconta che a suo figlio è andato tutto bene, sento che la sua gioia e forza diventano anche le mie, ma lo stesso vale al contrario quando qualcuno mi racconta qualcosa di triste, le mie paure raddoppiano.
E tu come stai?
Cerco di pensare sempre positivo, e gioisco dei piccoli traguardi quotidiani. Non mi sono mai chiesta perché fosse capitato a noi, ho solo chiesto di avere la forza per andare avanti ogni giorno, e per permettere a mio figlio di sconfiggere la malattia. Quando piange cerco di infondere in lui positività e di riuscire a dargli la forza per gestire questa che è l’unica quotidianità che conosce. Io, invece, non ho più pianto, spero di vivere un blocco, ma lo faccio per dare forza a mio figlio.
Senti di aver rinunciato a qualcosa?
Sì sono stata assente per il mio figlio maggiore, che aveva bisogno di me e invece è cresciuto in fretta, imparando ad occuparsi anche da solo di se stesso. Del lavoro invece mi importa poco, davanti a una malattia così grande per me non è stata una rinuncia enorme.
Cosa ti auguri per il suo futuro?
Che dopo tutto questo dolore arrivi la luce per lui, che sappia portare questa luce tra le persone e si riscatti per questa infanzia fatta di sofferenza.