“Mi sono sentita rotta, una donna incapace di generare vita”, l’infertilità raccontata da Giulia
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Giulia racconta la sua storia con la voce che trema e un solo desiderio, rimanere anonima, perché quel dolore che porta dentro e che ha deciso di condividere con noi non lo conoscono tutti.
Non lo conosce chi le dice “Ma allora un figlio non lo fate? Devo insegnarti io come si fa”, lo conosce ma lo dimentica o forse non sa come affrontarlo chi la invita a pranzi tra amici pieni di bambini piccoli e donne incinte, lo allontana chi le dice “vedrai che un bimbo prima o poi arriva devi solo stare più tranquilla”.
Giulia si sente rotta da quando è piombata su di lei la diagnosi di infertilità quella che pensava toccasse solo alle persone “sfigate” quando era una ragazzina, e poi ha pensato a lungo fosse a carico di suo marito, quando il primo spermiogramma ha dato dei risultati incerti.
“Mi porto addosso un senso di colpa enorme, perché una malattia ricade su di te, l’infertilità ricade sul mio futuro e su quello di mio marito. Vedo le mie amiche dare ai loro figli proprio i nomi che avrei dato io ai miei e mi sembra di non avere più nulla, neanche i miei sogni, che oggi corrono e schiamazzano a casa di altri, ma mai nella mia”.
Giulia, tu hai sempre pensato che saresti stata madre?
Non saprei, penso che su di me pesasse un po’ lo stereotipo di una donna che si realizza solo se ha un figlio. Quindi non so dire se quel desiderio di maternità fosse veramente mio, anche perché da adolescente mi immaginavo a lavorare nel mondo della cooperazione internazione, futuro che mal si concilia con la genitorialità.
Avevi mai pensato da giovane alla possibilità di non essere fertile?
Mai, anzi mi dicevo “queste cose succedono agli sfigati, mica a me”. Provavo quasi pena per chi viveva questa condizione e mai avrei pensato sarebbe successo a me.
Cos’è oggi per te l’infertilità?
L’infertilità io la definisco una patologia silente, perché finché non desideri un figlio tu stai benissimo, poi scopri che un tuo pezzo non funziona, fatalità quel pezzo è proprio quello che ha a che fare con la progettualità, i sogni per il futuro tuoi e della persona che ami.
Quando avete iniziato a parlare nella coppia che avreste desiderato un figlio?
Mio marito fin da quando eravamo fidanzati ha sempre manifestato il desiderio di avere un figlio, anche quando io non mi sentivo minimamente pronta. La voglia di concretizzare questa cosa ci è venuta nel 2019 quando siamo finalmente entrati nella casa che stavamo ristrutturando da tempo.
Pensavate che sarebbe arrivato subito quel bambino?
Abbiamo iniziato a cercare un figlio senza pianificare nulla, senza neanche sapere quanto ci volesse per avere un bambino. Trascorso un annetto di tentativi a vuoto, abbiamo deciso di approfondirne le cause, ma eravamo molto sereni e sicuri che un figlio lo avremmo avuto, pensavamo che era solo questione di tempo, le visite non mi spaventavano per nulla. Pensavo che sarebbe stata solo questione di pianificare i rapporti o di prendere il giusto integratore.
Quali visite avete fatto?
Io ero seguita da una ginecologa che però non era la professionista adatta a me. Non faceva che dirmi che dovevo rilassarmi, quindi io non ho fatto particolari visite, a differenza di mio marito che si è sottoposto a uno spermiogramma.
Dagli esami è emerso che il suo spermiogramma era leggermente basso e ci siamo convinti che fosse quella la causa del ritardo nell’avere un bambino. Poi è arrivato il Covid e la situazione si è un po’ cristallizzata.
Io ero ancora convinta che sarebbe andato tutto bene, forse era vero, eravamo solo stressati.
Poi cosa è successo?
È successo che a giugno 2021 sono rimasta incinta. Ma quel bimbo è rimasto dentro di me solo 5-6 giorni, perché l'ho perso subito, senza nemmeno avere il tempo di gioire.
La mia ginecologa mi ha visitata perché avevo delle perdite e mi ha detto che vedeva una camera vuota e che quindi quella gravidanza non sarebbe stata vitale, anche se fosse andata avanti. Questa cosa all’inizio mi ha dato sollievo, poi è stata una delle mazzate più forti mai prese.
Cosa hai provato?
Mi sono sentita incapace di generare vita, una donna rotta. Ma devo dire la verità io all’inizio a quel dolore non ho voluto pensare, l’ho congelato. Il giorno dopo sono partita, ma è stato come se al posto di lasciar asciugare le mie ferite ancora sanguinanti al sole, le avessi incerottate per non vederle e così lì sotto hanno fatto infezione.
Ho passato un’estate terribile, facendo finta di stare benissimo e a fine agosto decido di andare in psicoterapia per farmi aiutare.
Avete mai pensato di avvicinarvi all’adozione/qualcuno ve lo ha mai proposto?
Nella primavera precedente all’aborto abbiamo fatto un paio di corsi sull’adozione per capire se era una cosa che faceva per noi, perché entrambi nella vita l’avevamo già vissuta. La mamma di mio marito è stata adottata, mentre i miei genitori dopo aver avuto me come figlia, hanno deciso di prendere diversi bimbi in affido, 5 fratelli che sono passati nella mia vita, lasciando un segno non indifferente nella mia infanzia e adolescenza.
Essere passata attraverso l’adozione, non mi da la spensieratezza e l’incoscienza che ci vogliono per affrontare un viaggio così difficile. Quando vedi certe cose, conosci il dolore dei bambini che vengono adottati sai a cosa devi essere pronto. Io penso che per prendersi in carico la vita spezzata e così difficile di un bambino, serva essere delle persone straordinarie, i miei genitori lo sono stati. Io di straordinario non ho mai avuto niente.
Come avete vissuto l’aborto?
Lo abbiamo affrontato in maniera diversa. Io ero sempre molto triste e ho vissuto l’aborto come si vive la morte di un figlio. Mio marito, invece, si è approcciato alla cosa con un senso di fiducia e speranza rinnovata, lui voleva riprovare, pensava che altri bimbi sarebbero nati, io non ero pronta.
È stata dura rimanere insieme, io le capisco le coppie che davanti a un dolore del genere si lasciano. Questa cosa è stata una rivoluzione per la nostra storia, ci siamo messi in ascolto l’uno dell’altra, abbiamo capito che si potevano vivere le difficoltà in maniera diversa e superarle solo ascoltandoci. Siamo andati entrambi, ciascuno per sé, in terapia ed è stato molto importante prenderci cura del nostro dolore, seppur diverso.
Mentre vivevate questo dolore nell’intimità della vostra casa, da fuori qualcuno vi ha mai chiesto quando sarebbe arrivato un figlio?
Tutti, sì, anche perché siamo circondati di amici e persone che ci hanno sempre visti come una coppia solidissima, che tanto desiderava dei bambini, non vedendoli arrivare ci hanno riempiti di domande.
Bisognerebbe invece scriverlo a caratteri cubitali che certe domande non si fanno. C’era chi ci diceva “ma dobbiamo insegnarvi come si fa?”, “state aspettando di diventare vecchi?”, oppure chi mi giudicava per il mio corpo o le mie abitudini, attribuendo loro la colpa di quel bambino che non arrivava.
Ne hai parlato con i tuoi genitori?
No, ma perché con i miei genitori ho un rapporto molto particolare, dovuto all’esperienza di affido che abbiamo vissuto.
Io ho smesso presto di essere figlia, diventando una persona funzionale alla famiglia, ho cercato di vivere dando il meno fastidio possibile, senza mai esternare il mio dolore, perché erano altri i bambini che avevano bisogno, non io.
Come è stato vedere le tue amiche avere dei figli?
Tremendo, ogni annuncio di gravidanza è stato per me una sofferenza incredibile, soprattutto quelli delle mie migliori amiche.
Una di loro in particolare, non lo sa, perché non gliel’ho mai detto, ma ha scelto per sua figlia il nome che io avevo scelto per la mia. “Vera”, un nome particolare che mai avrei pensato qualcuno avrebbe scelto, è diventato il nome di una bimba che non era la mia.
È stato come veder realizzarsi la vita di una persona che avevo immaginato in un’altra famiglia. Noi negli anni non abbiamo mai smesso di fantasticare sui nomi che avrebbero avuto i nostri figli, anche se non sono mai riuscita a dare un nome ai bambini che ho perso.
Qual è la cosa più complessa da affrontare?
La difficoltà delle persone, anche quelle più care, a capire cosa proviamo io e mio marito.
Sabato scorso sono andata ad una cena, su 10 coppie, noi eravamo l’unica senza figli, i bimbi scorrazzavano ovunque, altri erano nei pancioni delle loro mamme, e io guardavo me e mio marito pensando che fossimo due alieni. Oppure ho fatto un weekend con le mie amiche a Firenze, una di loro era incinta, passavamo tra i quadri delle madonne con i bambini e io avevo la nausea, mentre mi portavo dentro quel dolore enorme. Ma a quel dolore nessuna delle mie amiche ha pensato, forse perché indossavo una maschera, forse perché ero ancora quella bambina che non doveva disturbare gli altri con il proprio dolore.
C’è anche però un forte tabù quando si parla di infertilità, non ho mai trovato storie in cui immedesimarmi.
Perché le persone faticano a parlare di infertilità?
Un po’ perché sanno di non essere capite, un po’ perché l’infertilità porta con sé un enorme senso di colpa, quello che uno di due si porta addosso, e un po’ perché è difficile sopportare e farsi carico del dolore degli altri.
Quel dolore che io ho sempre avuto bisogno di raccontare, veniva spesso liquidato con un “ma sì, stai tranquilla”, perché faceva paura a chi avevo davanti, molto più che a me.
Voi vi siete sentiti in colpa?
Sì, entrambi, il senso di colpa della nostra coppia è stato strano, all’inizio era mio marito ad avere le più grosse difficoltà, io non capivo la sua disperazione a ogni test negativo.
Poi abbiamo iniziato con un percorso di PMA e io ho fatto una serie di esami, da cui è emerso che avevo l’adenomiosi, di cui si sa ancora così poco che non esiste una cura e non si sa se sia strettamente legata alla mia infertilità e ai 3 aborti che ho vissuto.
Lì si è ribaltata la diagnosi e ho iniziato io a essere la causa di tutto, mentre il mio compagno si alleggeriva io mi caricavo di un dolore enorme. Senza la psicoterapia non so come avrei sopportato tutto questo.