“Le mamme sono sole, schiacciate da senso di colpa e inadeguatezza, in una società che le vuole per forza felici”
Il caso di cronaca che vede coinvolta Susanna Recchia, che si è tolta la vita portando con sé anche la sua figlia più piccola, affetta da una patologia epilettica, é un tragedia fatta di molto dolore ma che dà modo di riflettere su temi importanti.
Le psichiatre Nicoletta Giacchetti e Franca Aceti, responsabili del Servizio di Psicopatologia perinatale all’Ospedale Umberto I di Roma, parlano di una condizione di solitudine, di uno stigma sociale e di un senso di colpa che non è così raro le donne provino quando diventano madri.
“Bisogna vincere lo stigma secondo il quale una donna che ha desiderato un figlio deve essere per forza felice, perché i figli sono fonte di grande ambivalenza: sono risorse ma anche limiti, perché evocano per sempre un senso di responsabilità, che spesso ricade sulle donne e si fa insormontabile. Così le donne che non si sentono comprese possono arrivare, nella solitudine, a compiere gesti estremi” ha detto Nicoletta Giacchetti a Fanpage.it.
Dottoresse, qual è l’elemento cardine di questo caso di cronaca, cosa può portare una madre a compiere un infanticidio-suicidio?
Giacchetti: Il nucleo di questa vicenda è proprio la solitudine in cui verteva questa donna. Lei, sofferente e affetta da depressione, come riporta la stampa, è arrivata quindi ad inabissarsi sempre di più all'interno di uno stato d’animo negativo, che l’ha portata a non credere di poter crescere sua figlia, né tanto meno di poter sopravvivere.
C’erano persino due fattori di rischio molto chiari: la separazione con il compagno e la malattia della figlia, che è un danno alle aspettative che un genitore ha rispetto ad un figlio, per la quale può anche sentirsi in colpa.
Nonostante ciò nessuno si è accorto di nulla e di conseguenza lei avrà pensato di non poter chiedere aiuto a nessuno, fino ad arrivare a compiere un gesto estremo.
Aceti: La depressione porta con sé inaiutabilità, incapacità di vedere il futuro, e questa donna ne era affetta, ma c’è da dire che deve essere stata molto sola, perché nessuno cogliesse i suoi segnali.
E perché coinvolgere anche la figlia in questo gesto?
Giacchetti: Perché spesso questi casi di omicidio-suicidio, di cui noi ci occupiamo con articoli di ricerca sulle donne infanticide, purtroppo, quando accadono, sembrano essere legati a una dinamica di altruismo. Ciò che accomuna questi casi è un sentimento della madre, che crede di non poter proteggere il proprio figlio, di non potergli dare ciò di cui ha bisogno, sentimento che si amplifica quando un figlio è malato, come in questo caso, perché ancora più fragile agli occhi della donna. Di conseguenza, incapace di farlo in questo mondo, la mamma si convince, con il suicidio-infanticidio, di portare il proprio figlio o la propria figlia in un posto migliore.
Questo sentimento di inadeguatezza, potrebbe essere legato a una forma di depressione post partum?
Aceti: No, perché dalla nascita della bambina erano ormai passati 3 anni, un periodo troppo lungo per parlare di depressione post partum. Io credo vi fosse più una forma di timore di una vita difficile per la figlia che seppur aveva un disturbo trattabile, ai suoi occhi, data la depressione, era un problema amplificato e drammatizzato. Inoltre, non poter condividere con nessuno preoccupazioni e timori anche riguardo al futuro di una figlia malata, aggrava il senso di responsabilità.
Nella lettera affida gli altri figli alle cure del loro papà, cosa ci dice questo gesto?
Giacchetti: Innanzitutto ci dice che non li ha abbandonati, lei nella lettera li ha affidati in buone mani, quelle di una persona con la quale, si evince dalle sue parole, c'era un rapporto che era stato stabile e duraturo. Noi invece non sappiamo su quali basi si fondasse questa sua ultima relazione che aveva portato alla nascita della bimba di 3 anni, e poi a una separazione. Non conosciamo le dinamiche profonde della coppia, quindi non possiamo dire se lei non riusciva a vedere nell’altro una risorsa a causa della depressione o se realmente non lo fosse, in ogni caso ha deciso di portare con sé la bambina, probabilmente nel posto “migliore” di cui dicevamo prima.
Aceti: Esatto, nei sistemi depressivi domina il senso di inadeguatezza, ci si sente come se non si avessero le risorse per affrontare i problemi della vita, tra cui rientra anche la malattia di una figlia. Ma lei non ha abbandonato gli altri figli, anzi, non si sentiva adeguata a gestirli e li ha affidati a chi credeva più capaci di lei.
Quindi un figlio, anche se desiderato, può provocare sentimenti di inadeguatezza e non di gioia?
Giacchetti: Certo, questa è l’unica cosa che noi sappiamo di per certo. Eppure per una madre oggi è molto complesso esprimere un sentimento di disagio nell’accudire il proprio figlio, perché si sente in colpa e giudicata dal sociale.
La difficoltà sta proprio nel vincere lo stigma secondo cui le mamme sono contente di fare e crescere i figli, quando sono desiderati. Un figlio può essere una gioia, ma al tempo stesso ogni figlio è fonte di grande ambivalenze, tra l'essere una risorsa e un un limite, proprio per il suo essere per sempre ed evocare una forte responsabilità nei propri confronti. Tanto più grande è questa ambivalenza, tanto è più complesso crescere un bimbo in maniera armonica.
Ci sono delle avvisaglie alle quali stare attenti, che rivelano che una neo mamma sta vivendo una forma depressiva?
Giacchetti: Quando la depressione assume delle caratteristiche gravi si vede che la donna non entra in risonanza emotiva con gli altri, manifesta una forte astenia, spesso tende a dormire troppo, o invece a non dormire per niente per trascorrere la notte a rimuginare sulle proprie vicende, tende molto al pianto o lascia percepire una difficoltà anche senza manifestarla con questi sintomi.
Aceti: Ma per aiutare la donna non serve solo vicinanza, anche la capacità di non spaventarsi davanti all’espressione di questi sentimenti, perché l’angoscia contagia ed è difficile non farsi travolgere.
Il papà della bimba ha detto durante la denuncia della scomparsa delle due "Non avrei mai immaginato una cosa del genere, altrimenti non le avrei mai lasciato la bambina". Sarebbe stata la soluzione?
Aceti: No, la soluzione sarebbe potuta essere la condivisione, stare insieme e farsene più carico, ma è importante dire che non è semplice cogliere queste cose, non è semplice perché destano un'angoscia tale, che non si è più lucidi per coglierle, ci si può spaventare senza poi riuscire a decifrare certi sentimenti.
Giacchetti: Bisognerebbe anche analizzare nel dettaglio la separazione, cogliendo quanta ostilità c’era all’interno della coppia, non per giustificare, ma perché è difficile. L’uomo dice che le avrebbe tolto la figlia, ma poi la donna doveva essere fatta curare, perché non è mai la soluzione privare una bimba di una mamma in modo drastico. In ogni caso non conosciamo le complesse dinamiche di coppia.
Voi all'Ospedale Umberto I di Roma che servizio offrite alle mamme?
Giacchetti: Il servizio che noi diamo, attivo da oltre vent’anni, nasce dalla necessità di fare una prevenzione secondaria nella madre quando inizia a manifestare sentimenti di disagio emotivo, o una depressione maggiore o meno grave, soprattutto nel periodo del parto e del post partum (che dura da 1 a massimo 2 anni dopo la nascita).
Questo perché ormai è risaputo nella comunità scientifica, i primi 1000 giorni dal concepimento alla nascita sono quelli strutturanti nel rapporto madre bambino e dell’identità del bambino stesso. Quindi agire in quello specifico momento significa fare prevenzione al bambino, rispetto al suo sviluppo, e sulla mamma perché vuol dire dare un senso alla sua sofferenza.
Il dolore che la donna prova può assumere gradienti differenti, o ha manifestazioni psicotiche, quindi si sente fuori dal mondo reale e pensa che nessuno la possa aiutare, o ha caratteristiche più nevrotiche per le quali la mamma avverte segnali di ansia, ossessione e fobie che nascono all’interno della dinamica specifica mamma-bambino. Il disagio emotivo in questo periodo della vita della donna è diverso rispetto a quello che potrebbe provare in altri periodi della vita, noi stiamo sensibilizzando i consultori e facciamo corsi di specializzazione universitaria, per creare una cultura del sostegno concreto ed emotivo. Perché le donne sono sempre più sole e a volte segnate da una fatica che finisce per avere connotazioni sempre più gravi.