La storia di Elena, morta lontano da casa perché in Sardegna non esistono le cure palliative pediatriche
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“Scusa quando parlo di Elena mi si rompe la voce”, inizia così l’intervista alla mamma di Elena, che ha raccontato a noi di Fanpage.it la malattia oncologica terminale della sua bimba, scoperta per caso dopo un infortunio a danza, il dolore per la sua morte, che ha piegato e distrutto una famiglia e l’assenza di cure palliative pediatriche in Sardegna.
La sua piccola è morta potendo guardare il sole dalla finestra della sua camera d’ospedale per i suoi ultimi due mesi di vita, perché in Sardegna non esistono hospice pediatrici o personale formato nelle cure palliative per garantire la giusta assistenza a casa alle famiglie. «La medicina permette ai bambini di vivere più a lungo, ma non garantisce a questi giorni in più la giusta qualità di vita»
Oggi per sopravvivere alla morte di sua figlia e dare un senso a quanto accaduto ha fondato un'associazione “Elena e poi…Amare, condividere ed esserci”, e gira l'Italia con la Fondazione Maruzza ETS, grazie alla quale fa divulgazione riguardo l’importanza delle cure palliative pediatriche e aiuta le famiglie a non isolarsi e a cercare il supporto necessario.
Ci racconti chi era Elena?
Mia figlia era una bambina piena di vita, le piaceva tantissimo ballare e faceva danza classica e aveva così tanta voglia di vivere che quando ha scoperto che per la sua malattia avrebbe dovuto appendere le sue scarpette al chiodo mi ha detto “Mamma non fa niente, se non posso più ballare voglio almeno cantare”.
Elena era così, trovava vita ovunque, ha anche scritto un libro mentre era in ospedale, grazie al suo maestro Andrea. Era partita da un breve racconto in cui parlava di una bimba caduta in una pozzanghera, che poi poteva solo parlare con i peluche e lo ha intitolato “La magia degli amici”. Il suo maestro glielo ha fatto rilegare con una copertina del suo colore preferito, il verde, e lo ha fatto girare per tutto il reparto, tanto che una dottoressa le disse “Quando diventerai una scrittrice ricca e famosa ricordati di noi mi raccomando”, e lei ha risposto in una maniera che ha spiazzato tutti: “Quando divento ricca voglio rifare il tetto della chiesetta di Santa Maria”. Aveva sempre un pensiero per gli altri e se ne sono accorti tutti, tanto che quel libro è stato illustrato da una ragazza del Paese che frequentava la chiesetta e che ha organizzato un memorial durante il quale sono state vendute le copie del libro. Dal ricavato è stata raccolta una somma che ha permesso di ristrutturare il tetto della chiesetta.
Elena è mancata l’11 di novembre, e ha vissuto il suo ultimo Halloween in ospedale, chiedendo al fratello di comprare le caramelle per tutti i bambini del reparto, facendo trovare loro un sacchettino ricolmo di dolciumi l’indomani a tutti i bimbi ospedalizzati.
Elena amava gli animali, grazie a lei in ospedale oggi si fa pet therapy, e quando ha scoperto che non avrebbe più rivisto la sua Stella, perché la fine era vicina, per la prima volta mi ha guardata e mi ha detto “Mamma, ho tanta paura”.
Ci racconti i giorni dopo la diagnosi?
Tutto è iniziato quando la mia bambina, che allora aveva 6 anni ed era sanissima, tornando da una lezione di danza mi ha detto di aver sentito uno strano “tac” sotto al ginocchio.
I primi giorni non mi sono troppo preoccupata, ho pensato ad uno stiramento o ad un sovraccarico dovuto al suo essere sempre in movimento. Dopo una settimana, però, il dolore non ne voleva sapere di andare via e allora abbiamo iniziato le nostre indagini.
Ho portato la piccola in radiologia e da lì la brutta diagnosi “Signora è una neoplasia, dobbiamo valutare più nello specifico di cosa si tratta”. Dopo lo sgomento iniziale la bimba è stata subito indirizzata all’Ospedale Careggi di Firenze, dove le è stata fatta una biopsia ossea mirata. Proprio lì è arrivata la peggiore delle diagnosi, si trattava del sarcoma osseo di Ewing.
La bimba ha quindi subito intrapreso le cure, a Cagliari, all’oncoematologia, dove ha fatto 4 cicli e poi siamo tornate al Careggi per l’operazione, dove ha fatto un innesto di tibia. Ha continuato il protocollo di cura che sembrava andare bene, anche se la diagnosi era quella che era.
Dalla fine del primo protocollo a 9 mesi ha avuto una recidiva nell’osso della nuca, e ha quindi fatto anche la radioterapia a Padova, perché era troppo piccola. Da lì a breve i periodi di remissione della malattia si accorciavano sempre di più fino a che, dopo 6 anni, le metastasi avevano completamente invaso il polmone, rendendo tragica la situazione.
Proprio lì mi sono appellata alle mie conoscenze, maturate dopo aver lavorato come infermiera per tanti anni con i pazienti adulti oncologici. Arrivati a quel punto ho detto alla dottoressa che non avrei voluto provare chissà quale terapia che avrebbe avuto come unico risvolto allungare le sofferenze della bambina. Io volevo solo garantirle una qualità di vita dignitosa.
È stata una scelta complessa, perché l'hai fatta?
Difficilissima. Ma se è ovvio che la morte di un figlio è impossibile da accettare, oggi sono passati 12 anni e ancora mi sembra tutto surreale, l’amore che un genitore deve avere per la dignità del suo bambino, deve prevaricare su tutto secondo me.
Quindi io ho chiesto che la mia bimba non soffrisse ulteriormente, fino a lì siamo riusciti a garantirle una buona qualità di vita, senza privarla di niente. Quando poteva la mandavo a scuola, altrimenti facevo in modo che i suoi compagni di classe venissero a trovarla a casa, oppure seguiva le lezioni con il maestro dell’ospedale. Si è costruita una bellissima rete attorno a mia figlia, ma mi sono accorta che non era così per tutti i bambini, ci sono dei genitori che vivono la malattia dei loro figli con vergogna e li isolano così dal resto del mondo. Le cure palliative devono lavorare in questo senso, per ridare qualità di vita ai bambini che seppur malati rimangono sempre bambini.
Cosa sarebbe cambiato se in Sardegna ci fossero state le giuste cure palliative?
Se ci fosse stata una rete di cure palliative strutturata in Sardegna, la mia bimba avrebbe potuto trascorrere a casa gli ultimi due mesi di vita a casa, con un’assistenza domiciliare adeguata o grazie a un hospice che dopo aver inquadrato la situazione avrebbe lavorato al fine di garantirle le cure a casa.
Invece mia figlia è stata ricoverata in ospedale il 26 settembre ed è morta l’11 di novembre, potendo solo guardare il cielo da una finestra per i suoi ultimi mesi, e questo è ancora per me il dolore più grande, che non ho mai superato. Mia figlia non è mai stata abituata a ricevere delle cure a domicilio e quindi nei suoi ultimi giorni si sentiva sicura solo in ospedale, se ci fossero state le cure palliative per lei sarebbe stato molto diverso.
Mia figlia ha occupato per due mesi e mezzo un letto che poteva essere di un bambino che doveva fare terapia, perché manca un hospice. Mia figlia poi, prima di morire, è stata sedata, attraverso una sedazione palliativa che le ha permesso di andare via serena.
Spesso le famiglie si sfaldano quando arriva una diagnosi così dura, voi vi siete mai sentiti soli?
Soli no, perché la dottoressa Letizia Casula ci ha affiancato e protetto come nucleo familiare per tutta la malattia. Io mi sono sentita forse non capita, più che altro perché nella mia famiglia c’era una differente visione di nostra figlia, io ad un certo punto non riuscivo più a vederla come una bambina e mi occupavo solo della sua parte malata, mentre mio marito non mi capiva. Quando ho chiesto che mia figlia smettesse di soffrire, lui riusciva solamente a pensare che tanto nostra figlia non poteva morire, gli sembrava tutto impossibile. Infatti, a due anni dalla morte di Elena, è morto anche lui.
L'assenza della giusta formazione riguardo le cure palliative, ha quindi causato la morte di due persone, mia figlia e il suo papà. È evidente che sia necessario fare informazione sulle cure palliative o sulla sedazione, altrimenti le persone sono erroneamente indotte a pensare che queste accelerino la morte del bambino, quando in realtà permettono solo di morire in modo dignitoso, quando sarà il momento.
I medici che seguivano Elena erano oncologi, presi da altri mille pazienti e tantissimi cavilli, per potersi anche mettere a tavolino e spiegare alla mia famiglia cosa fosse la terminalità. Serve del personale apposito che fornisca il supporto adeguato alle famiglie che affrontano la malattia dei figli.
Tu quindi hai chiesto che Elena ricevesse le cure palliative?
Io, grazie alle mie competenze mediche, avevo chiesto che venisse chiamato un medico che gestisse la terapia del dolore per mia figlia. Poi ho parlato con i medici del reparto, chiedendo loro che mia figlia non soffrisse, loro hanno dunque chiamato un anestesista che si occupasse poi delle sue cure palliative.
Il problema fondamentale è che non esistono palliativisti pediatrici, sia per le malattie oncologiche che per le malattie genetiche inguaribili. E se oggi la tecnologia, le macchine, i ventilatori, allungano la speranza di vita dei bambini, non si riesce anche a garantire loro la giusta qualità di vita di quegli ultimi giorni.
Hai dovuto lasciare il lavoro per stare accanto a Elena?
Sì, io ho lasciato il lavoro per due anni e mezzo, e essendo l'Ospedale di Cagliari, l'unico pediatrico di tutta l'isola, ho conosciuto famiglie in cui l’unico a lavorare era il papà, e anche l’unico ad avere la patente, e dunque l'unico a poter accompagnare all'ospedale suo figlio.
A lungo andare questi papà perdevano il lavoro, e so che si dice che in quei momenti la salute ti sembra essere la cosa più importante, ma non è vero, i soldi sono importantissimi perché un bambino malato costa tanto. Ecco perché le famiglie scoppiano, hanno problemi economici a cui si sommano i problemi sociali e non di rado quando arriva una diagnosi così terribile i genitori si suicidano, oppure lo fanno i fratelli dei bambini malati.
Elena ha dei fratelli?
Sì Elena ha un fratello maggiore, che come tutti i fratelli dei bambini malati è stato lasciato a lungo solo durante la malattia, perché l’attenzione di tutti è sul bambino malato e qualunque sia l’esito del percorso di malattia, la ferita che rimane dentro ai fratelli dura per sempre. Lui dopo la morte della sorella è stato molto male, poi ha deciso di iscriversi a medicina e di fare proprio il pediatra. Da ciò si evince che manca un’equipe che si prenda in carico la famiglia, sollevandola da alcuni pesi e incarichi, anche burocratici.
L’associazione che hai fondato per Elena, è un modo per sopravvivere?
Sì, penso proprio di sì. In alcuni momenti mi sembra di fare qualcosa per tutti, in altri di dare un senso alla morte di mia figlia e in altri ancora mi sento un po' egoista e penso di fare tutto questo perché da quanto è morta Elena io non vivo più, mi limito a sopravvivere.