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La storia di Antonella e del figlio affetto dalla sindrome di Sturge-Weber: “Grazie a lui si è aperto un nuovo mondo”

Antonella è la presidente dell’Associazione Sturge Weber Italia e ha raccontato a Fanpage.it la storia della sua famiglia, dalla diagnosi alla ritrovata serenità.
A cura di Niccolò De Rosa
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Storia Sturge-Weber

La nostra redazione riceve lettere e testimonianze relative a storie che riguardano la maternità e l’essere genitori.  Se avete una storia da raccontarci, o leggendo queste parole pensate di avere vissuto una situazione simile, potete scriverci cliccando qui

In Italia pochi conoscono o hanno anche solo sentito parlare della sindrome Sturge-Weber, una rara malattia congenita facilmente riconoscibile per la presenza di una vistosa macchia violacea che copre parte del volto di chi ne soffre.

Benché i suoi effetti siano molto variabili, le forme più gravi di questa condizione possono segnare il destino di intere famiglie, chiamate a prendersi cura di un figlio o una figlia che in molti casi non riuscirà mai a parlare, camminare né vedere correttamente.

È questa ad esempio la storia di Antonella, mamma di Alberto (nome di fantasia), che dopo anni spesi a regalare al figlio la miglior vita possibile ha deciso d'impegnarsi per aiutare altri genitori in situazioni simili a non perdere mai la speranza.

Antonella oggi è infatti presidente dell'Associazione  Sturge Weber Italia e con Fanpage.it ha ripercorso le tappe che l'hanno portare a vivere con serenità la malattia del suo Alberto.

Partiamo dall'inizio: com'è stato il primo impatto con la sindrome?

Quando rimasi incinta di Alberto, la gravidanza andò liscia come l'olio. Al momento del parto però le cose si complicarono e vissi un travaglio molto lungo e difficoltoso. Per questo pensavamo che quella grossa voglia che copriva parte del volto del mio bimbo fosse un problema legato al parto. Nessuno però ci sapeva dire niente e all’inizio la mia unica preoccupazione era quella estetica, tanto che mi informai subito sulla possibilità di usare il laser. In fase di dimissioni però, dall’ospedale mi fanno sapere che sarebbe stata necessaria una visita con una genetista. Fu proprio durante quell'incontro che io e mio marito, Matteo, sentimmo parlare per la prima volta della sindrome si Sturge-Weber, che poteva essere la responsabile di quella macchia.

Cosa accade dopo?

La genetista ci consigliò di andare a Padova, presso un ospedale universitario, per ottenere una diagnosi certa. Qui i dottori verificarono la situazione e ci avvisarono che avrebbero potuto manifestarsi delle crisi epilettiche, tipiche di questa condizione. Io quasi non sapevo che cosa fossero, eravamo totalmente impreparati. A due mesi però, proprio il giorno della Festa del papà, mio figlio ebbe la prima crisi che confermò la diagnosi. Da quel giorno mio marito ha ‘abolito'  il 19 marzo dal calendario.

Come avete affrontato questo colpo?

I medici ci dissero che la sindrome aveva diverse sfaccettature: poteva anche limitarsi alla macchia o comportare solo un lieve ritardo. Speravamo fosse il nostro caso, ma la cose andarono diversamente.

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Come furono i mesi successivi?

Cominciammo a somministrare al bimbo i farmaci anti-epliettici e sembrava andasse tutto bene. A nove mesi d’età però, arrivò una crisi molto forte chiamata “stato di male”. Mio figlio non riusciva più ad uscirne e oltre ai continui spasmi degli arti, lo sguardo si era fissato con gli occhi che guardavano solamente verso sinistra. È stato uno dei momenti peggiori. I medici gli indussero il coma farmacologico e non erano ottimisti. Mi chiesero anche se volessimo chiamare un prete, perché l’esito più probabile era quello. Incredibilmente però, dopo tre giorni di sedazione e un periodo riabilitativo mio figlio ne venne fuori.

Che prospettive vi diedero i medici?

Non si sbilanciarono e dissero che la situazione andava monitorata letteralmente giorno per giorno. I danni dopotutto c’erano ed erano stati gravi: il bambino rimaneva disteso e si nutriva grazie ad un sondino naso-gastrico. L’incertezza regnava sovrana.

Come avete reagito?

Sia io che mio marito ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo fatto tutto quello che era in nostro potere per provare a migliorare la situazione, dotandoci di ogni ausilio possibile.

Siete stati aiutati in questa fase delicata?

Chi ha a che fare con la disabilità entra in un mondo di burocrazia e complicazioni infernali. É stato – ed è ancora tutt’oggi – molto difficile ottenere dalle ASL quello che dovrebbe essere un diritto, ossia un' assistenza minima, sia materiale che economica, per poter dare ai nostri figli una vita dignitosa. Purtroppo la realtà è ben diversa.

In quali aspetti avete percepito una maggiore carenza di supporto?

Faccio un esempio che vale per tutti. L’ASL in questi casi passa la fisioterapia una volta alla settimana con orari prestabiliti. Chi ha la Sturge-Weber però è spesso soggetto a momenti di crisi che non possono essere controllati e quando questi episodi coincidevano con gli orari della seduta non potevamo fare altro che tornare a casa nella speranza di riprovarci la settimana successiva. Alla lunga abbiamo dovuto affiancare delle figure professionali private.

Deve essere stato molto gravoso, economicamente parlando…

Quando sei disperato le provi tutte, dall’agopuntura alla medicina cinese, passando per le terapie più disparate. La nostra famiglia però ha avuto la fortuna di poter provare tutte queste strade: altri non hanno né la disponibilità né le risorse per provare a fare altrettanto.

Le terapie hanno sortito qualche effetto?

La condizione di Alberto era molto grave, quindi lui ancora oggi non parla e spesso si muove sulla sedia a rotelle. Le crisi sono però andate diminuendo con l’età, fino quasi a scomparire quando aveva 6-7 anni.

Com’è stato l’impatto con il mondo scuola?

Noi siamo stati molto presenti e mio figlio è sempre stato molto tranquillo, si faceva voler bene da tutti. L’inserimento dunque è stato abbastanza positivo, sia con le maestre con i compagni. Anzi, proprio in questo periodo Alberto ha cominciato a muovere qualche passo. Certo, soprattutto alle medie si poteva fare di più, anche perché l’inclusività non è solo tollerare il diverso, ma renderlo parte del gruppo.

Cosa piace fare ad Alberto?

In casa Alberto riesce a muoversi in modo abbastanza autonomo, pur con i suoi tempi, e anche se non parla fa dei grandi sorrisi. Poi ama l’acqua e ogni settimana lo portiamo in piscina. Gli piace anche l’aria aperta e quando usciamo a fare delle biciclette abbiamo un piccolo carrettino dove si siede e si gode la giornata.

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Quanto è stata d’aiuto la scelta di entrare in un’associazione, di cui poi sei diventata la presidente?

Il mese in cui Alberto è stato malissimo è stato il momento più buio della mia vita. In quei giorni, l’unica persona con cui volevo parlare era un’altra madre che era già passata da un’esperienza simile. Il suo sostegno è stato fondamentale per farmi capire che potevamo uscirne, che non era la fine di tutto. Questo mi ha portato a fare rete e lavorare perché altre famiglie potessero trovare conforto negli aspetti più duri della sindrome.

Ora siete una famiglia felice?

Assolutamente sì. Alberto mi ha aperto un mondo e mi ha insegnato a capire l’importanza delle piccole cose. Lo ringrazio ogni giorno per questo.

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