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La storia di Alessandra, nata prematura: “Piangeva e io, la sua mamma, non potevo fare nulla”

Nella giornata mondiale della prematurità Stefania Sartore ci ha raccontato la storia della sua Alessandra, ormai una donna piena di sogni e ambizioni, ma che fin dal primo giorno della sua vita ha dovuto combattere in terapia intensiva contro la morte.
A cura di Sophia Crotti
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Alessandra e la sua mamma
Alessandra e la sua mamma

La nostra redazione riceve lettere e testimonianze relative a storie che riguardano la maternità e l’essere genitori. Se avete una storia da raccontarci, o leggendo queste parole pensate di avere vissuto una situazione simile, potete scriverci cliccando qui.

Sono più di 13 milioni i bambini che nel mondo nascono prematuri ogni anno, 25.000 in Italia le mamme che escono dalla sala parto senza nemmeno aver visto o sentito il loro bimbo, altrettante le famiglie che annualmente si ritrovano a veder lottare i propri figli tra la vita e la morte per i loro primi mesi di vita in Terapia Intensiva Neonatale (TIN). 96% è la percentuale di bambini che grazie a macchinari, team di esperti e numerosi studi sull’argomento, come specifica la società italiana di neonatologia (SIN) in occasione della giornata mondiale della prematurità, si salva.

Tra loro c'è Alessandra, che oggi studia psicologia e conduce una vita serena ma che, quando è nata, ha dovuto combattere fin dal primo giorno contro la morte. Pesava meno di 700 grammi quando ha aperto gli occhi per la prima volta emettendo un gridolino che la sua mamma, Stefania Sartore, ci racconta essere stato tanto leggero quanto forte perché sapeva di vita. Nata al sesto mese di gravidanza per una gestosi, grazie all'intuito della sua mamma, che ha capito subito che qualcosa non andava, ora è viva.

"Mi sono sentita tremendamente in colpa, perché io che ero la sua mamma non ero riuscita a proteggerla, non potevo occuparmi di lei, mi trovavo ad osservarla da un vetro, sperando ogni giorno che sopravvivesse" ha raccontato Stefania Sartore a Fanpage.it.

Alessandra ce l'ha fatta, la sua mamma Stefania ha superato quel senso di colpa tremendo, il suo papà continua a credere che lei sia un miracolo sceso in terra e suo fratello a ritenerla meravigliosa, esattamente come tanti anni fa, quando guardandola tra i cavi, minuscola, quasi bidimensionale ha sussurrato ai suoi genitori: "È la mia sorellina ed è bellissima".

Come hai vissuto la gravidanza di tua figlia?

La gravidanza di mia figlia per me è stata la seconda ed è arrivata dopo una prima gravidanza che era andata benissimo. Per i primi 6 mesi è stato tutto perfetto, anche se ho avuto fin dal giorno che ho scoperto di essere incinta un sentore negativo. Benché le visite di controllo e gli esami andassero sempre bene, quando mi chiedevano come stesse proseguendo la gestazione rispondevo sempre “finché non la vedrò non sarò tranquilla”.

Quando hai scoperto che tua figlia sarebbe nata prima?

Era agosto e provandomi la pressione mi accorsi che era spaventosamente alta, si pensava ad un caso di ipertensione in gravidanza. Gli esami del sangue però andavano sempre bene, fino ad ottobre, quando un valore sballato mi ha mandata in crisi. Ho chiamato il mio ginecologo e lui mi ha detto di stare tranquilla, ma questa mia sensazione negativa non passava, e il lunedì successivo mi sono presentata in ospedale da lui che mi ha visitata quasi canzonandomi perché era convinto che stessi benissimo. Mi ha fatto un’ecografia e ricordo di averlo visto sbiancare in volto, prima di dirmi che mi doveva ricoverare. Io gli ho risposto che non c’era problema, mi sarei ricoverata per il bene della mia bambina, convinta che si trattasse di un controllo di qualche giorno. Allora lui mi ha guardata e mi ha detto: Saranno anche solo pochi giorni, ma tu uscirai da qui senza la tua bambina in pancia”.

alessandra

Poi come è andata?

Lì è iniziato un incubo, qualcosa di inimmaginabile per me che al corso pre-parto non avevo mai sentito parlare di questa eventualità. Mi hanno ricoverata e hanno scoperto che la mia bambina non cresceva da due settimane, quindi nonostante io fossi alla ventiseiesima settimana di gestazione la bimba era grande quanto un feto alla 24esima settimana. Poi oltre alla pressione alta quello stesso giorno sono comparse le proteine nelle urine e hanno iniziato a gonfiarmisi i piedi, insomma stavo manifestando la preeclampsia. Io ricordo di non aver fatto altro che piangere durante il ricovero e che mio marito per consolarmi cercava online delle storie di bimbi prematuri sopravvissuti, per convincermi che anche noi ce l’avremmo fatta. Due giorni dopo, mi hanno fatto un taglio cesareo che permettesse a mia figlia di salvarsi, fuori dalla mia pancia.

Come è stato il parto?

Ben diverso da quello del mio primo figlio che era stato naturale, abbastanza lungo ma per nulla doloroso. In questo caso si trattava di un cesareo programmato che ricordo come un momento sereno, anche perché penso che mi abbiano un po’ sedata. Io parlavo con il ginecologo e il primario durante il parto, poi ricordo che quando è nata la mia piccola Alessandra è stata immediatamente accolta da un team di medici che l’ha portata in una stanza adiacente alla mia. Ricordo di aver sentito un suono, che esagererei nel chiamare pianto, più simile ad un miagolio, che proveniva da quella stanza. Una sinfonia flebile che per me ancora oggi è il suono della vita.

Quando hai visto la tua bambina la prima volta?

Non subito, perché per 24 ore mi hanno immobilizzata a letto con il catetere, mio marito mi ha raccontato che la bimba è uscita dalla sala parto in una piccola incubatrice avvolta in una specie di carta domopack per tenerla al caldo. Mio marito mi ha detto che faceva impressione perché sembrava che non ci fosse nessuno sotto quella coperta. Pesava 615 g per 31 cm, era minuscola. Per 24 ore non ha avuto bisogno dell’ossigeno, il giorno seguente invece la situazione è precipitata e lei è stata in pericolo di vita per un mese e mezzo. È sopravvissuta ai suoi stessi polmoni che si stavano chiudendo e ad una cid, una condizione che la consumava da dentro e al dotto di botallo, un buco nel cuore che nei prematuri non si chiude se non con due dosi di ibuprofene. A mia figlia, però quel buco non si chiudeva, se lo ha fatto è stato solo per l’intuizione e il coraggio di una dottoressa che ha provato con una terza dose, non prevista dal protocollo.

alessandra e la sua mamma

Come si vive con la consapevolezza che la propria bambina per un mese e mezzo è in pericolo di vita?

Durissima, io ho passato una settimana a piangere ininterrottamente, a quel dolore si sommava il fatto che io guardavo le altre mamme uscire dall’ospedale con i loro bambini tra le braccia e provavo una forte invidia “buona” nei loro confronti. Infatti ho chiesto di essere dimessa il più in fretta possibile. Sono tornata a casa dal mio primo figlio, Filippo, che mi aspettava e aveva bisogno di me e ogni pomeriggio andavo in terapia intensiva neonatale dalla mia bambina, mentre mio marito ci raggiungeva la sera dopo il lavoro. Stavamo lì e speravamo che tutto andasse per il meglio, siamo stati prima su un’altalena, poi sulle montagne russe, per un mese e mezzo, caratterizzato da trasfusioni, cavi, peggioramenti e miglioramenti.

Come è stato vederla per la prima volta?

Un trauma. Ricordo che io chiedevo agli infermieri di portarmi da lei ma che loro mi fermavano dicendo che avrei dovuto aspettare mio marito, che in quel momento era in anagrafe a denunciare la sua nascita. Solo quando mi sono trovata davanti a lei ho capito perché i medici non volevano che la vedessi da sola, era più piccola di quando era nata, avendo perso i liquidi e mi ha fatto impressione. Mi è sembrato di vedere qualcosa di bidimensionale, spalmato sul lenzuolino. Ricordo di aver avuto come un mancamento, mio marito mi ha fatto forza e mi ha detto: questa è nostra figlia.

Poi le cose sono andate meglio?

Sì, finalmente dopo un mese e mezzo di agonia ha raggiunto il kg e non dimenticherò mai il primario che me lo ha annunciato dicendomi che era il caso di stappare una bottiglia di champagne, dal momento che finalmente potevamo iniziare con la marsupioterapia.

Come è stato prenderla in braccio per la prima volta?

Io ricordo che la prima sessione di marsupioterapia ce la siamo litigata io e mio marito, lui voleva che la facessi io dal momento che ero la mamma della bimba, io volevo la facesse lui che era stato forte e spesso il solo a credere che ce l’avrebbe fatta. Ricordo di aver sentito per la prima volta il contatto con la mia bambina e aver pensato che io, che ero convinta di essere stata la fonte di tutti i suoi problemi, potevo essere la soluzione. Lo stesso ho pensato tutte le volte che sono riuscita a tirarmi il latte che i medici le hanno dato.

Come è stato tornare da tuo figlio senza la sorellina?

La casa non era pronta ad accoglierla, perché era presto, ma è stato bello tornare alla vita, non che mia figlia non fosse viva, ma la sua esistenza era costantemente in bilico. Appena dopo essere stata dimessa sono corsa fuori da scuola a prendere mio figlio, perché i giorni prima gli avevo promesso all’entrata a scuola che ci saremmo rivisti il pomeriggio stesso finita la giornata scolastica, e invece sono stata ricoverata e non è stato così. Lui era frastornato ma ha cercato di non dimostrarlo né a me né a mio marito, ha capito davvero che la sua sorellina era viva quando abbiamo iniziato a mostrargli le sue foto. Quelle immagini erano spaventose, si intravedeva una magrezza estrema e un viso quasi alieno ma lui era un fratello maggiore orgoglioso, l’ha guardata e ha detto: “Ma è bellissima”. A lui bastava che sua sorella ci fosse, nient’altro.

Vivere nella terapia intensiva è un po’ come trovarsi in un mondo a parte?

Sì, a tutti gli effetti si tratta di un mondo a parte, in cui io, in  un momento così doloroso e difficile, mi sentivo anche fortunata ad essere. Lì c’erano solo persone che comprendevano il mio dolore, le mie gioie nel percepire anche solo pochi grammi in più sul corpo di mia figlia e  i miei silenzi. Solo lì ero protetta dalle domande delle persone fuori che seppur in buona fede, domandavano sempre troppo. Lo dico sempre, l’avventura che abbiamo vissuto tra quelle mura è stata per me la cosa più terribile e al contempo più bella che io abbia vissuto in vita mia.

alessandra e la sua famiglia

Tu ti sei mai sentita in colpa?

, come credo si sentano tutte le mamme di bambini prematuri. Ci dicono che i bambini devono stare nel corpo della loro mamma 9 mesi, il mio corpo invece aveva rigettato mia figlia ed io, sua madre, che avrei dovuto proteggerla non ci ero riuscita, non ero stata abbastanza forte. Mi sono sentita inadeguata davanti a questo esserino di cui per il primo mese di vita in particolare si sono presi cura solo gli altri. È difficile accettare che tua figlia piange e non puoi fare niente se non guardarla da un vetro. Una mattina poi mentre portavo mio figlio a scuola un papà di un suo compagno di classe mi ha fermata per chiedermi come stavo e io gli ho detto che mi sentivo tremendamente in colpa. Lui mi ha risposto in un modo che non dimenticherò mai: “Non devi sentirti in colpa, perché tu non sei la causa del problema, anzi tu puoi essere la soluzione. Solo così ho imparato a ragionare sul fatto che forse era stato proprio il mio sesto senso a salvarci entrambe.

Come è stato poi portarla a casa?

Bello e spaventoso, perché è stato difficile ripartire senza infermiere, monitor o ossigeno e noi controllavamo continuamente che respirasse. Ogni 3 mesi poi faceva visite con un pediatra e un neuropsichiatra per valutarne la crescita ma è sempre andato tutto bene. Per tanto tempo è stata visitata da un oculista per la retinopatia del prematuro e così a poco a poco è cresciuta. I medici l’hanno sempre guardata come un miracolo, anche noi, il nostro piccolo miracolo che oggi è una ragazza forte, disciplinata, timida e molto intelligente.

Alessandra oggi
Alessandra oggi

Oggi è la giornata della prematurità, è importante per i genitori che vivono la tin trovare dei racconti che parlino di bambini e famiglie che ce la fanno?

Sì, è essenziale, leggere di bambini che ce l’hanno fatta quando tu non sai neanche se tua figlia sopravviverà una settimana intera è di vitale importanza. Per me lo è stato.

C’è un aneddoto della tin che ci vuoi lasciare?

Ricordo il papà di un bambino che era diventato la leggenda dell’ospedale perché era nato prima ancora di raggiungere la struttura, uscendo dalla tin per portare finalmente a casa il suo bambino mi ha guardata e mi ha detto: “Tu sei la mamma di Alessandra vero? Ce la farà, io li riconosco quelli che ce la fanno” e per me è stato come prendere una boccata di ossigeno. E poi ho un altro aneddoto che non c’entra con la tin, ma quando mia figlia è stata battezzata a fine cerimonia il prete ha detto che stavamo pregando con un miracolo, indicandola e raccontando la sua storia. Appena uscita dalla chiesa ho sentito una coppia di anziani signori dire: “Ma ti rendi conto, quando è nata pesava meno di un mezzo pollastro ed ora è qui”, l’ho stretta un po’ tra le braccia per ricordarmelo anche io che il mio miracolo era qui con me, con noi.

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