“La cartella clinica di nostro figlio era spaventosa, ma l’abbiamo accolta come genitori”: l’adozione special needs
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Riccardo e Pina (nomi di fantasia) hanno conosciuto loro figlio per la prima volta in video chiamata, sempre attraverso uno schermo lo hanno visto gattonare, camminare, guardare oltre la finestra dell'istituto indiano in cui si trovava, senza sapere cosa lo attraesse così tanto.
Loro figlio, che ora ha perfettamente introiettato il loro lessico familiare, esteticamente non assomiglia a nessuno dei due, perché è stato da loro adottato, attraverso l'adozione internazionale e sa benissimo che per conoscerlo la sua mamma e il suo papà hanno dovuto prendere due aerei.
L'adozione in particolare è un'adozione special needs, poiché l'ente di adozione internazionale oltre a presentare con il suo nome il bambino che Riccardo e Pina avrebbero adottato, ha anche portato loro una cartella clinica molto complessa.
I due hanno deciso di accogliere la patologia del bimbo e le sue difficoltà, perché dopo un'adeguata preparazione al mondo dell'adozione sono stati consapevoli che adottare un bambino fosse proprio questo: dargli una speranza, dargli una famiglia, e non perché si è delle brave persone, ma perché ogni bambino ne ha il diritto.
Come e perché vi siete avvicinati al mondo dell’adozione?
R: Perché desideravamo un figlio, ma quando abbiamo provato ad averlo ci siamo accorti che per noi era davvero impossibile. A questo punto ci hanno proposto la procreazione medicalmente assistita, in particolare l’eterologa, per la quale ai tempi ci saremmo dovuti recare in Spagna. Questa opzione fin da subito, però non è stata nelle nostre corde, e quindi abbiamo optato per l’adozione.
Quanto è durato l’iter adottivo?
R: Tanto, ma perché noi inizialmente ci siamo approcciati al mondo dell’adozione in maniera un po’ sprovveduta, cercando online come muoverci. Abbiamo chiesto anche qualche informazione ad amici, che erano già genitori adottivi, ma non era abbastanza. Abbiamo presentato la nostra disponibilità al tribunale dei minori di Milano nel 2015.
P: Ad oggi con il senno di poi penso che noi la prima volta che ci siamo approcciati all'adozione non fossimo pronti. Tuttavia i servizi sociali ci rilasciarono una bella relazione, siamo stati chiamati 2 volte dal Tribunale di Milano, ma entrambe le volte alla fine non siamo risultati noi la coppia più adatta ai bambini. A questo punto sono trascorsi 3 anni, e abbiamo rifatto la domanda per l’adozione nazionale e internazionale nel 2018 e questa volta abbiamo avuto l’idoneità per l’adozione internazionale, abbiamo scelto un ente e come Paese l’India. E nel 2020 siamo andati in India a conoscere nostro figlio.
Come è stato questo periodo di attesa?
P: Ci ha dato la possibilità di crescere, ci ha permesso di conoscere a fondo il mondo dell’adozione e di conoscere meglio noi stessi, rafforzando il nostro rapporto.
R: Sì è un percorso che o rafforza la coppia o la divide, ma che dovrebbero fare tutti i genitori, perché fa capire a che punto si è e quanto c’è da fare. Anche perché sono due modalità di genitorialità diverse e similissime, al centro c’è sempre un bambino, e le problematiche che si affrontano sono simili.
Ha cambiato la vostra visione della genitorialità questo percorso?
P: Sì, perché mi ha portata a capire che genitore volessi essere e come lavorare per arrivare a quello scopo. Io non penso che i genitori biologici non siamo portati a riflettere su cosa significhi diventare genitori, semplicemente è una riflessione alla quale arrivano dopo, poiché non devono chiedere il permesso a nessuno, non devono per forza interrogarsi o essere interrogati da chi dia loro l’idoneità scritta che attesti la loro preparazione ad essere genitori. Noi siamo stati messi davanti a una serie di situazioni, argomenti e possibili scenari che si sarebbero potuti venire a creare una volta scoperto di diventare padre e madre di una creatura che è un corpo estraneo, e che finché non sarà nelle tue braccia non saprai se riuscirai a farti accogliere e ad accoglierlo a sua volta.
R: L'adozione mi ha permesso di vivere la genitorialità in maniera diversa, perché diversa è stata l'attesa. Con la gravidanza biologica il ruolo del padre è abbastanza marginale, con l’adozione i ruoli sono alla pari e il percorso di mamma e papà è pressoché identico.
Come è stato il primo incontro con vostro figlio?
R: Possiamo dire di aver avuti due primi incontri, abbiamo visto nostro figlio la prima volta in videochiamata, perché saremmo dovuti partire per l'India a marzo 2020, ma a causa del Covid non abbiamo potuto. Abbiamo visto crescere nostro figlio attraverso lo schermo di un cellulare, ogni 15 giorni da quando aveva 14 mesi, facevamo una chiamata con l’ente. Quando lo abbiamo finalmente preso in braccio la prima volta aveva 27 mesi.
P: il primo incontro è stato molto emozionante, ma è emozionante ancora oggi guardare i video delle prime videochiamate registrate, le nostre espressioni sono molto commoventi secondo me.
E una volta insieme cosa avete fatto?
R: Abbiamo vissuto con lui un graduale avvicinamento, durato 3 giorni in cui noi gli facevamo visita in istituto e poi tornavamo in albergo. Lui piangeva vedendoci andare via e ogni volta era uno strazio. La prima volta che siamo arrivati, ricordo che ci stavano parlando e che noi lo abbiamo visto in braccio ad una tata nell'altra stanza e abbiamo smesso di ascoltare chi ci parlava, eravamo già innamorati di lui.
P: Sì, siamo riusciti a coinvolgerlo, trovando il gancio giusto. Le tate sono state con noi, allontanandosi a poco a poco ma rimanendo sempre presenti, gli hanno fatto fare dei giochi e poi sono uscite e ci guardavano da fuori, parlandogli per rassicurarlo. Noi avevamo con noi dei palloncini e li abbiamo gonfiati e lasciati volare per la stanza, senza legarli, lui ha iniziato a ridere di gusto e quello per noi è stato l’aggancio, voleva continuamente giocare con quelli.
Il giorno che abbiamo lasciato l'istituto, era contentissimo di stare tra la gente, era emozionatissimo, seduto in mezzo a noi nel tuk tuk, si guardava attorno come fosse la prima volta che guardava il mondo. Si è affidato a noi, palesandosi per ciò che era, un bimbo gioioso, sorridente.
Vi siete sentiti subito i suoi genitori?
P: Sì perché lo eravamo già. Siamo diventati i suoi genitori quando ce lo hanno presentato e abbiamo accettato l’abbinamento. Certo devo dire che se avessimo solo letto la cartella clinica con cui lui veniva presentato, senza sapere null’altro avremmo detto di no. Non posso dimenticare che uno specialista a cui abbiamo portato la cartella clinica di nostro figlio prima di conoscerlo, ci ha detto “Io spero di aver sbagliato a leggere questa cartella clinica e di vedervi con un bambino che in realtà non ha un quadro così complesso”.
Lì è stata dura, ci siamo detti “ma cosa abbiamo fatto?”, però nel nostro cuore abbiamo sentito che potevamo portare questi suoi problemi con noi e ci siamo fidati della relazione che aveva fatto la referente indiana e fino adesso abbiamo avuto ragione noi, Kesha è un bambino speciale, che ha delle patologie particolari, ma che per ora non gli hanno precluso una vita normale e autonoma.
Come mai avete scelto una adozione special needs?
R: È stata una scelta che ci siamo sentiti di fare fin da subito, compilando la domanda di adozione sia nazionale, che internazionale con le specifiche patologie legate all'India.
P: Si fanno diversi incontri con gli psicologi dell’ente per avvicinarsi e comprendere anche quali patologie si è in grado di accogliere. Nel nostro caso la situazione di nostro figlio ci è stata presentata come molto complicata, ma pensiamo che il Paese di provenienza abbia accentuato la patologia per dare al bimbo la possibilità di entrare nelle liste d'adozione special needs e trovare così in un’altra parte del mondo una miglior cura. Chi lo ha abbandonato o chi in India ha deciso di non adottarlo tramite adozione nazionale, lo ha fatto perché era chiaro comunque che lì non avrebbe ricevuto le cure che invece riceve oggi qui. Quindi la cartella clinica è stata alterata, per poter subito inserito nelle liste special needs, così che venisse adottato al più presto.
Come vi relazionate al fatto che lui prima di incontrare voi abbia vissuto un abbandono?
P: Se la domanda è cosa proviamo nei confronti di chi lo ha abbandonato, i nostri sentimenti sembrano andare sulle montagne russe, in alcuni momenti siamo arrabbiati, in altri grati, è difficile.
R: In un corso formativo ci hanno proprio chiesto di scrivere una lettera al padre e alla madre di nostro figlio e lì sono uscite le emozioni, per quanto mi riguarda non c’è questa rabbia nei loro confronti, più che altro non riesco a comprendere come si possa abbandonare questa creatura, che è nostro figlio. Ma d’altra parte questo gesto ha dato vita alla nostra famiglia, ed è stato abbandonato in un luogo in cui chi lo ha lasciato sapeva che lo avrebbero trovato, avvolto in una coperta. Chi lo ha lasciato ha fatto in modo che avesse comunque una possibilità di riscatto.
Com’è vederlo crescere diverso da voi?
P: è un’emozione grande, una scoperta quotidiana, perché lui è un concentrato di positività, luce e tante cose, che avrebbe anche se fosse figlio di pancia. Un figlio è un figlio, al di là dell’adozione, è sempre diverso da te. Nostro figlio fisicamente non ci assomiglia, certo, ma probabilmente nello stare insieme quotidiano, ci assomiglia più di quanto immaginiamo, anche perché ha acquisito il nostro linguaggio familiare, ha delle gestualità che appartengono alla nostra famiglia, così come i modi di dire.
È un privilegio e una responsabilità essere la sua mamma, sono il suo faro, il suo esempio, come il suo papà, e sento di sbagliare, di cedere alla rabbia a volte, però la sera quando ci addormentiamo gli chiedo sempre se è stata una buona giornata e se l’indomani possiamo fare meglio. C’è sempre quel metterci in gioco per migliorarci reciprocamente. Oggi è lui che a volte mi dice che ha fatto una cosa non bella e vorrei che questo gli restasse sempre.
Che genitori vi sentite?
P: Io mi sento sufficientemente buona, lui è un bravissimo papà, fargli perdere la pazienza è quasi impossibile, è un papà molto pratico, gli piace fare molte cose con suo figlio, è per lui un vero esempio. È un papà che parla poco ma le cui parole hanno un estremo valore, il suo no è un no, ed è molto presente.
Lui: Lei si sente così, ma in realtà è la mamma che tutti vorrebbero avere, si vede da ciò che nostro figlio impara ogni giorno da lei. Penso che siamo genitori che hanno cercato e cercano di dare il meglio perché il loro bimbo cresca bene, e che non temono di chiedere aiuto.
Avete già pensato come gli racconterete l’adozione?
R: Noi siamo stati un po’ indisciplinati, perché avremmo dovuto scrivere la sua storia e non lo abbiamo fatto, gliela raccontiamo però da sempre, ogni giorno con le parole adatte alla sua età. Abbiamo le fotografie di lui con le tate, la sua storia aleggia in ogni dove nella nostra casa. Sa che ha due mamme e due papà, sa che noi per incontrarlo abbiamo preso due aerei.
P: Abbiamo tanti appunti sparsi di ciò che ha provocato in noi il suo arrivo, ma non c’è una favola lineare. I servizi sociali ci hanno sempre suggerito di creare una storia ad immagini, ma alla fine sta funzionando la tecnica dell’album di ricordi, che compiliamo noi e la scuola, lì lo usa molto quando sente la nostalgia e per parlare con gli altri, essendo un po’ indietro con il linguaggio. Tramite le immagini lui racconta e prima o poi metteremo un filo conduttore. Quando vorrà sapere di più noi saremo qui per lui.
R: In ogni caso non gli mentiamo mai, perché anche una sola bugia potrebbe spezzare il filo sottile della fiducia.
Vi capita che chi avete attorno vi veda come benefattori?
R: Sì, sono domande inopportune, ma che probabilmente avremmo fatto anche noi se non avessimo una profonda cultura dell’adozione. Il nostro compito è proprio diffondere questa cultura e spiegare cosa si può e cosa non si può chiedere. C’è chi davanti a nostro figlio chiede se gli abbiamo detto che è stato abbandonato o che ci chiede dove sia la mamma vera. Bisogna sempre respirare e rispondere in maniera corretta, perché il bimbo capisce.
Com’è approcciarsi al fatto che non si possa scegliere il nome del proprio figlio?
R: È una cosa con la quale si fanno i conti fin da subito con l’adozione, questo nome è suo, è forse l’unica cosa davvero sua ed è bellissimo, proprio perché gli appartiene.
P: Anzi siamo stati colpiti e affascinati dal suo nome, che significa “radianza, bellezza e luce diffusa”, il suo nome deriva da un avatar del dio Shiva. Il nome è stato scelto perché il giorno presunto della sua nascita, ossia quando è stato trovato, era la festa de dio che con la luce aveva sconfitto le tenebre. A me affascina che il suo aspetto abbia portato qualcuno a pensare che era così luminoso da sembrare quasi ultraterreno, come un dio.
Come descrivereste l’adozione a chi non la conosce?
P: Come un’opportunità, per la quale è importante però farsi una cultura, entrando in un'associazione di genitori per iniziare l’indagine psicosociale preparati. E poi direi che i miracoli esistono. E anche un momento in cui è necessario fare spazio nel tuo cuore, nella tua casa e nella coppia per accogliere un bambino
R: sì esatto, un percorso che è un’opportunità per il singolo e per la coppia, che arricchisce. La cosa bella è che ciò che abbiamo imparato e impariamo ogni giorno le possiamo donare agli altri. L’attesa è dura ma era il preludio di un miracolo, qualcosa che non è accaduto per caso.
Avete delle paure per il futuro?
P: Sì, ma come tutti i genitori. Abbiamo paura di non riuscire a dargli gli strumenti per renderlo autonomo, o che questo mondo non si evolva a sufficienza per accogliere le diversità che non sono solo quelle fisiche. Sogniamo un futuro in cui nessuno gli chieda da dove viene, quali sono le sue origini, in cui nessuno gli tocchi i capelli perché sono ricci o dove si trova la sua vera mamma.