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“Il 76.3% delle donne ha subito violenza ostetrica e una su due pressioni per allattare dopo il parto”: le esperte

La professoressa Lucia Ponti e la dottoressa Sasha Damiani hanno condotto uno studio per comprendere l’entità del fenomeno della violenza ostetrica, che quasi l’80% del campione di donne studiate ha detto di aver subito, dimostrando che nelle sale parto è più frequente di quanto si immagini.
Intervista a Professoressa Lucia Ponti e Dott.ssa Sasha Damiani
Lucia Ponti(psicologa psicoterapeuta e docente di psicologia dello sviluppo e dell'educazione presso l'Università di Urbino Carlo Bo) E Sasha Damiani (medica anestesista, formatrice e divulgatrice sui social)
A cura di Sophia Crotti
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immagine di repertorio

La violenza ostetrica è stata indagata da un nuovo studio dedicato, che ha indicato i numeri e le percentuali delle donne che a livello nazionale l’hanno subita, così la professoressa Lucia Ponti, psicologa psicoterapeuta e docente di psicologia dello sviluppo e dell'educazione presso l'Università di Urbino Carlo Bo e la dottoressa Sasha Damiani, medica anestesista, formatrice e divulgatrice sui social, hanno dato vita a uno studio che ha coinvolto 1327 donne, rivelando che il 76.3% di loro aveva subito violenza ostetrica. Non solo, circa una donna su due aveva subito pressioni dopo il parto per poter allattare.

Così lo studio dal titolo "La prenatalità difficile: il caso della violenza ostetrica" condotto dall'Università di Urbino ha dato voce a una tematica che spesso, spiegano le due esperte a Fanpage.it, passa sotto silenzio per un'eccessiva concentrazione sulle condizioni del bambino, che portano la donna ad essere vista più come un contenitore che come una persona in grado di provare dolore fisico e mentale.

Dott.ssa Ponti e Damiani
Dott.ssa Lucia Ponti, psicologa psicoterapeuta e docente di psicologia dello sviluppo e dell'educazione presso l'Università di Urbino Carlo Bo e dottoressa Sasha Damiani, medica anestesista, formatrice e divulgatrice sui social

Da cosa nasce il desiderio di fare una ricerca proprio sulla violenza ostetrica?

Lucia Ponti: Io mi occupo da tempo del tema della transizione alla maternità e di tutti quei fattori che possono influenzare il benessere psicologico delle donne nel periodo perinatale, tra questi vi è l’esperienza del parto, il modo in cui la donna vive questo momento può avere un forte impatto sul suo benessere e sulla salute del neonato, e sulla relazione che si instaurerà tra mamme e bebè. Un parto traumatico può essere un fattore di rischio, che può avere ripercussioni nel post partum. Analizzando la letteratura sull'argomento, mi ha molto stupita la carenza di studi nel contesto italiano sul tema della violenza ostetrica, da qui è nato il mio interesse di studiare la prevalenza del fenomeno.

Sasha Damiani: Io ho lavorato come anestesista per molti anni e ho avuto modo di vedere quanto spesso l’ambiente della sala parto e dell’ostetricia in generale, venissero associati ad un atteggiamento infantilizzante nei confronti delle donne, in cui la loro autodeterminazione e capacità di prendere delle decisioni e portarle avanti, venivano spesso invalidate. Avevo questa sensibilità anche perché con il mio lavoro ho girato diversi ambienti ospedalieri accorgendomi dunque che quel tipico paternalismo medico a poco a poco stava scomparendo, tranne che in ostetricia, luogo in cui l’autodeterminazione delle donne è meno riconosciuta. Anche io, poi, guardando alla letteratura, ho pensato non ci fossero abbastanza dati, e che da un certo momento in poi l’argomento violenza ostetrica sia stato strumentalizzato da un punto di vista ideologico perché se ne è iniziato a parlare come se solo il parto naturale non fosse una violenza. Questo atteggiamento non corretto ha creato una spaccatura dal punto di vista sanitario. I medici infatti si sono ancora più irrigiditi sulle loro posizioni di negazione, spiegando che la medicalizzazione serve a rendere più sicuro il parto, ma dall’altra parte la vera protagonista, ossia la donna, non è stata presa in considerazione, perché ciò che davvero conta sembrava essere l'esperienza del parto indipendentemente dalle etichette.

Quante donne del campione di donne che ha preso parte alla ricerca ha dichiarato di aver subito violenza ostetrica?

Lucia Ponti: il campione è abbastanza ampio perché il nostro obiettivo era raccogliere dati a livello nazionale. All’indagine hanno partecipato 1450 donne in totale, di cui però 1327 sono rientrate nei criteri di inclusione, perché per esempio alcune di loro non avevano partorito in Italia o avevano risposto al questionario nonostante avessero partorito anni prima. Il 76.3%, di queste donne quindi 1011 hanno dichiarato di aver subito almeno una forma di violenza ostetrica.

Quali sono le forme di violenza ostetrica che le donne hanno dichiarato di aver subito maggiormente?

Ponti: Alcune forme di violenza rientrano nella qualità della relazione con l’operatore sanitario, mi riferisco al fatto che sono state riscontrate alte percentuali sulla sensazione di essere state ignorate davanti a possibili domande poste al personale sanitario, rispetto al parto o al bambino . Tante donne hanno anche riferito una mancata comprensione della necessità di eseguire un parto cesareo. Sempre all’interno di quest’ambito, molte donne hanno anche riportato la sensazione di essere state rimproverate durante il travaglio. Altre forme riguardano aspetti legati a pratiche mediche, come l’episiotomia, le pressioni sull’addome durante il parto per agevolare l’uscita del feto o l’obbligo ad assumere posizioni scomode e fastidiose durante il parto.

Damiani: è importante sottolineare che lo scopo dell’indagine non era determinare se una data manovra fosse giusta o sbagliata dal punto di vista medico, ma come era stata vissuta dalla donna. Il che significa che se una data procedura viene percepita in modo violento ed è mancata una comunicazione durante la manovra o una spiegazione anche a posteriori nel caso di procedure d’urgenza che non riescono a creare il consenso informato nel momento giusto, si tratta di violenza. Se manca una spiegazione anche a posteriori alle donne pare di non aver fatto parte del proprio processo di parto e di aver subito qualcosa di cui non si era nemmeno capito il significato. Questa mancanza di informazioni è anche lo specchio del fatto che durante i corsi pre parto difficilmente si accenna alle eventualità negative del parto, gli esperti tendono sempre a raccontare gli aspetti più belli e positivi, sminuendo le domande di chi prova a chiedere cosa sia l’episiotomia.

Dallo studio emergono anche le conseguenze sulla donna della violenza ostetrica?

Ponti: Per parlare di conseguenze sarebbe stato necessario un disegno di ricerca diverso, noi abbiamo raccolto le informazioni tutte nello stesso momento, quindi noi possiamo parlare al massimo di correlati e non di predittori. Ciò che è emerso è che le donne che hanno vissuto un’esperienza di violenza ostetrica tendono anche a riportare livelli maggiori di disagio psicologico, dal punto di vista metodologico non possiamo sapere se questi disagi di ansia e depressione sono conseguenza di esperienze di violenza ostetrica, sarebbe necessario seguire le donne per un periodo più lungo.

Tutto ciò che avviene dopo il parto, le pressioni per l’allattamento, il rooming-in, rientrano nella violenza ostetrica? Sono emerse dalla ricerca?

Damiani: Un altro dato emerso dalla ricerca è che una donna su due, il 46% delle intervistate, ha rivelato di aver subito pressioni per l’allattamento. Questa domanda noi la abbiamo fatta perché nessuno l’aveva mai posta prima, tema interessante perché mostra la tendenza a dire che tutto ciò che concerne l’allattamento non è violenza ostetrica. In realtà per molte donne manipolazioni psicologiche e fisiche, colpevolizzazione per non volere o non riuscire ad allattare al seno, sono a tutti gli effetti una violenza subita. Si tratta di una forma di violenza ostetrica perché rientra in una sfera che non è prettamente etica, dal momento che per quanto ci siano vantaggi nell’allattamento al seno è una scelta estremamente personale che condiziona pesantemente il corpo, la psiche e il sociale di una donna che deve sentirsi libera di scegliere e sentirsi sempre sostenuta. Per quanto riguarda il rooming-in il problema non è il rooming-in in sé, ma il fatto che la conseguenza della permanenza del bambino accanto alla mamma non si accompagna da un sostegno adeguato, la madre dovrebbe avere tutta l'assistenza di cui necessita come il suo bambino. E qualora la mamma non se la sentisse, per stanchezza o perché non sa come fare, dovrebbe avere aiuto in questo. Dal momento che ciò non accade, anche per carenza di personale, diventa un problema di negligenza nell’assistenza e una forma di violenza ostetrica.

Ponti: il problema è la modalità in cui rooming-in o allattamento vengono proposti alla donna, se c’è coercizione significa che non si stanno rispettando i bisogni e i diritti della mamma in quel momento, cosa che rientra nella violenza ostetrica.

Quando una manovra effettuata in sala parto è violenza ostetrica?

Ponti: qualsiasi manovra non rispetti l’autonomia e il diritto della donna.

Damiani: secondo l’OMS l’assenza di un consenso informato, non tanto in quanto foglio scritto e firmato, ma di un processo in cui si è in due e il paziente è persona attiva che ascolta, fa domande ed esprime consenso o dissenso. Se viene fatta una procedura senza consenso parliamo di violenza ostetrica. Ovviamente ci sono delle situazioni di urgenza, che non lo rendono possibile il consenso, in questo caso si tratta di violenza ostetrica se manca una spiegazione anche a posteriori.

Quanto il falso mito secondo cui il parto fosse sinonimo per forza di dolore ha ostacolato la possibilità delle donne di parlare di violenza ostetrica?

Ponti: provare dolore non include sofferenza psicologica, poi il parto è un evento fortemente medicalizzato, lo si vede dal libretto della gravidanza con tutte le indicazioni per le visite da fare per la donna, tra cui manca sempre un consulto psicologico, nonostante si sappia che la gravidanza porta con sé molte emozioni contrastanti. Io penso che l’attenzione quasi esclusiva dell’aspetto medico della gravidanza può portare la donna a non mettere in discussione l’intervento ospedaliero perché pensa di essere lì solo a far nascere il suo bambino e non riconosce immediatamente di aver vissuto una forma di violenza ostetrica. Perché quella procedura e quel comportamento vissuto arriva ad essere legittimato come necessario per garantire la salute della donna e del bambino. Questo accade perché il benessere della donna sembra sempre messo da parte.

Damiani: tutta questa attenzione e medicalizzazione è estremamente fetocentrica, il modo in cui una donna, fin dal test di gravidanza, si sente attenzionata, non riguarda il suo benessere personale ma il bene del bambino. Quando le si dice di mangiare bene, dormire bene e fare sport non lo si fa per la sua salute, quanto più perché è il contenitore di una vita che quando poi viene al mondo prosegue questo senso di abnegazione per cui ciò che è il bene o il male del suo corpo e della sua psiche passi in secondo piano rispetto al bene del bambino. Anche le esperienze negative, che le donne vivono durante la gravidanza, come il lutto di una persona vicina, vengono sminuite o invalidate perché devono essere contente e pensare al bambino, come non potessero coesistere la capacità di fare la madre e la sofferenza per un dolore subito. Credo che si rifaccia più al mito del sacrificio materno, che del dolore.

Minimizzare davanti ad una donna il lutto per un suo aborto spontaneo fa parte della violenza ostetrica?

Ponti: Considerando che qualsiasi comportamento, frase, azione o atteggiamento, vissuta nel periodo perinatale della donna da parte del personale sanitario che lede il benessere fisico e psicologico della donna, rientra in una forma di violenza ostetrica, sì.

Damiani: la cosa più corretta sarebbe parlare di violenza ostetrico-ginecologica, così si racchiuderebbero tutti quegli episodi che avvengono durante visite ginecologiche al di fuori della gravidanza. Con violenza ostetrica si intende ciò che ha a che fare con sfera riproduttiva, situazioni in cui la donna viene svalutata per il fatto di essere portatrice di utero. Dire a una donna che ha vissuto un aborto spontaneo:"Tanto ne farai un altro di figlio", anche se per consolarla è una violenza e la spia di una formazione insufficiente da parte di chi l'ha detta.

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