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I versi dei bebè non sono casuali: per uno studio sono i primi veri tentativi di comunicare con il mondo

Secondo due nuovi studi, i bebè cercano di dare una struttura al proprio linguaggio già nei primi mesi di vita, utilizzando strilli, “ringhi” e vocalizzi per esercitarsi alla comunicazione.
A cura di Niccolò De Rosa
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I versi dei bambini non sono casuali

I suoni emessi dai bambini nel loro primo anno di vita potrebbero essere meno casuali di quanto si pensasse. È quanto emerge da uno studio condotto da Pumpki Lei Su, ricercatrice presso l'Università del Texas a Dallas, che ha analizzato il modo in cui i neonati sviluppano le loro capacità linguistiche.

La ricerca, che in realtà si è suddivisa in due lavori distinti, ha suggerito che i bambini nei loro primi mesi di vita sono molto più attivi del previsto nell'apprendimento nell'utilizzare le loro pur acerbe abilità di linguaggio. Secondo Su e i suoi collaboratori, i suoni prodotti dai neonati seguirebbero infatti uno schema preciso e si raggrupperebbero in tre categorie principali, indipendentemente dalla presenza o meno di un adulto.

Strilli, "ringhi" e suoni vocali

Nell'ambito di due studi pubblicati recentemente, uno su PLOS ONE e l'altro sul Journal of Autism and Developmental Disorders, i ricercatori hanno esplorato come i bambini "giochino" vocalmente fin dai primi mesi di vita, imparando quali azioni producono determinati suoni e ripetendo il processo in continuazione.

Per condurre questa ricerca, il team di Su ha utilizzato un vasto archivio di registrazioni domestiche relative a oltre 300 bambini, messo a disposizione dal Marcus Autism Center e codificato dal team del Dr. D. Kimbrough Oller dell'Università di Memphis.

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Grazie a queste registrazioni – che riproducevano quei versetti e squittii tipici dei bebè riprodotti sia in presenza di altre persone, sia da soli – è stato dunque possibile documentare quantitativamente come i neonati esploravano e raggruppavano i suoni.

Simili informazioni sono state analizzate dal team di ricerca, che ha in seguito identificato diversi tipi di suoni, classificati in base alla loro tonalità e alla frequenza d'onda come strilli, "ringhi" o suoni simili a vocali.

Lo studio apparso su PLOS ONE ha utilizzato oltre 15.000 registrazioni di questo tipo, appartenenti a 130 bambini. I risultati ottenuti hanno mostrato che il 40% delle registrazioni conteneva significativamente più strilli del previsto, mentre il 39% mostrava un raggruppamento di "ringhi".

Simili tipologie di suoni erano comuni a tutte le età prese in considerazione, con tassi più elevati osservati dopo i cinque mesi di età. Nessun bambino, tra quelli valutati, ha mostrato la totale assenza di questi "versetti".

Il nesso con l'autismo

Il secondo studio, pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorders, ha invece dimostrato che tutti i bambini, anche quelli negli anni successivi avrebbero ricevuto una diagnosi di un disturbo rientrante nello spettro autistico, mostravano simili tentativi di esplorare e sperimentare i suoni vocali durante il loro primo anno di vita.

Secondo Su infatti, la disanosi di autismo non influisce sulla tendenza a raggruppare suoni all'interno di una categoria vocale alla volta. Anche senza la presenza di un genitore, infatti, i bambini praticano la produzione di suoni già dal primo mese di vita, un comportamento che dimostra come questo processo sia spontaneo e naturale, e non solo frutto di un istinto di imitazione come si pensava.

Versi bambini

La lingua del "parentese" e gli effetti sui piccoli con autismo

nell'0ambito di questi studi, Su ha ricevuto anche una sovvenzione triennale dall'Istituto Nazionale per la Sordità e Altri Disturbi della Comunicazione (NIDCD) per studiare l'uso del "parentese" — ossia quel linguaggio infantile esagerato e spesso ricco di intonazioni utilizzato dai genitori per comunicare con i bambini piccoli — con i bambini autistici.

Se infatti il parentese è generalmente ritenuto un input ottimale per i bambini in sviluppo tipico, aiutandoli a prestare attenzione e a segmentare le parole, Su punta a verificare se tale stile comunicativo sia altrettanto efficace anche con i bambini con disturbo autistico.

I prossimi passi della ricerca si concentreranno dunque sull'appurare se il parentese faciliti effettivamente l'apprendimento delle parole da parte dei bimbi autistici rispetto a quel registro più standard utilizzato normalmente dagli adulti.

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