I ragazzi a scuola sono davvero troppo protetti dai genitori? Il parere della pedagogista
Lo scorso 17 novembre, in occasione dell’Open Day del liceo scientifico "Gaetano Salvemini" di Bari, la preside Tina Gesmundo è assurta alle cronache nazionali grazie alle dure parole con le quali si è rivolta agli studenti e, soprattutto, ai loro genitori.
Ben lontano dall’essere un classico invito promozionale a iscriversi all’istituto, il discorso della preside è stato un invito a riflettere sul ruolo educativo delle famiglie, un intervento diretto e privo di compromessi. "Non vendo detersivi e non sono sul mercato", ha subito premesso Gesmundo, la quale ha messo nel mirino i genitori moderni, accusati dalla preside di essere troppo invadenti e protettivi e di coltivare nei figli l’ossessione per il successo e il denaro, senza preoccuparsi del fatto che i giovani crescano privi di valori o empatia verso il prossimo. "Non c’entrano i social, c’entrate voi", ha sottolineato, attribuendo alle famiglie la responsabilità principale per atteggiamenti di bullismo e prevaricazione, purtroppo sempre più diffusi, e per la crescente insensibilità tra i giovani.
Le parole della preside, seguite anche da una nuova intervista rilasciata al Corriere della Sera (nella quale, tra le altre cose, associa l'iper-protezione dei genitori alla pioggia di certificazioni di Disturbi Specifici dell'Apprendimento) hanno suscitato un dibattito acceso, ponendo l'accento sulla questione educativa in un contesto sociale che sembra sempre più orientato al raggiungimento di risultati a tutti i costi. Intervistata da Fanpage.it, la pedagogista Paola Daniela Virgilio, Vice Presidente dell’ANPE (Associazione Nazionale Pedagogisti) ha approfondito i temi sollevati dalla docente, analizzando il rapporto sempre più complesso tra scuole e famiglie.
Dottoressa, pensa che i giovani di oggi siano davvero troppo protetti dai genitori?
Naturalmente è bene non generalizzare, ma effettivamente c'è una tendenza tra le nuove generazioni di genitori a voler tutelare all'eccesso i propri figli. La protezione genitoriale è naturale, ma dobbiamo interrogarci sul confine tra protezione e iper-protezione. I giovani di oggi, purtroppo, spesso non hanno l'opportunità di confrontarsi con le difficoltà necessarie per sviluppare resilienza e autonomia. Dar loro questa opportunità non significherebbe lasciarli soli, ma offrir loro gli strumenti per affrontare le sfide della vita. La chiave sta nel modellare comportamenti positivi: i genitori, con il loro esempio e un sostegno equilibrato, possono aiutare i ragazzi a gestire i fallimenti e a crescere come persone responsabili e consapevoli. Come pedagogista, credo fermamente che i giovani abbiano bisogno di essere educati all’autonomia, senza essere eccessivamente protetti da errori che sono parte integrante del loro processo di crescita.
La preside ritiene che i crescenti fenomeni di bullismo e cyberbullismo siano ascrivibili soprattutto a genitori che stanno "troppo affidando alla scuola una loro incapacità educativa". È d’accordo?
È vero che alcune famiglie tendono a delegare alla scuola il ruolo educativo, dimenticando che l’educazione nasce prima di tutto in casa. Tuttavia, la scuola e la famiglia devono agire in sinergia. Non possiamo dimenticare che i fenomeni di bullismo e cyberbullismo riflettono anche dinamiche sociali più ampie, come l’influenza dei media e la mancanza di educazione emotiva. Proprio per questo sarebbe utile una specie di "Contratto di Comportamento", un documento simbolico che responsabilizzi gli adolescenti e li impegni ad adottare comportamenti positivi come ascoltare, comunicare con rispetto e cercare soluzioni collaborative ai conflitti. Tale approccio aiuterebbe a costruire una cultura del rispetto che coinvolge tutti: famiglia, scuola e comunità.
È vero, come suggerito dalla preside in una recente intervista, che le sempre più frequenti certificazioni DSA vengono brandite come uno scudo per difendere i ragazzi?
Il tema delle certificazioni è delicato. Da un lato, è essenziale riconoscere e supportare i ragazzi con difficoltà specifiche. Dall’altro, dobbiamo evitare che queste certificazioni diventino un’etichetta o, peggio, uno strumento per giustificare atteggiamenti o comportamenti poco costruttivi. In molti casi, la sovrapposizione tra diagnosi reali e una tendenza all’iper-protezione rischia di ostacolare lo sviluppo naturale del senso di responsabilità e della consapevolezza personale. In questo può essere determinante il ruolo del pedagogista, il cui compito è proprio quello di educare genitori e insegnanti a utilizzare le certificazioni come un mezzo per migliorare il supporto educativo, non come una giustificazione o un limite.
Quale potrebbe essere la direzione da intraprendere per far sì che famiglie e scuola tornino a collaborare in modo efficiente per il bene dei ragazzi?
La chiave è ripristinare una vera alleanza educativa. Famiglie e scuole devono smettere di agire come due poli contrapposti e riconoscere che il loro obiettivo comune è il benessere dei ragazzi. Questo significa creare spazi di confronto e dialogo, come incontri periodici e laboratori congiunti che coinvolgano genitori, insegnanti e studenti. Nelle mie pubblicazioni scientifiche ho spesso sottolineato l’importanza della formazione continua, non solo per gli insegnanti, ma anche per i genitori, affinché possano sviluppare competenze educative adeguate. Inoltre, strumenti come il "Contratto di Comportamento" potrebbero essere integrati nei percorsi scolastici per responsabilizzare i ragazzi e favorire una comunicazione positiva e costruttiva tra tutti gli attori coinvolti.