“Ho temuto di diventare matta come mio papà”: la storia di Stefania, figlia di un genitore con un disturbo mentale
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Stefania quando era una bambina non capiva perché suo papà avesse paura di tutto, fosse violento e sospettoso. Non comprendeva nemmeno perché sua mamma, nel tentativo di portare avanti la famiglia da sola, non avesse mai tempo per l’affetto e le spiegazioni.
Un disturbo mentale, guardato con gli occhi di una bimba, che dai suoi genitori vorrebbe solo protezione e amore, può essere complesso da decifrare. Stefania si è spesso vergognata del malessere di suo padre, delle improvvise liti che scoppiavano in casa sua, dello sguardo dei passanti che lo riportavano a casa in condizioni critiche a causa di un mix tra alcolici, a cui non riusciva a rinunciare, e psicofarmaci.
All'inizio Stefania ha rifiutato il suo papà, ha avuto bisogno di allontanarsi da lui per guardarlo, una volta cresciuta, con occhi diversi. Nel reparto di psichiatria, dove andava a trovarlo, ha iniziato a comprendere le debolezze di un uomo reso fragile dalla malattia, e le potenzialità della donna che stava diventando. Con l'aiuto di uno psicologo ha scoperto che la sua empatia, resilienza e voglia di vivere erano nate proprio tra le grida e le paure di una famiglia apparentemente sgangherata a cui deve anche la sua capacità di chiedere aiuto con estrema dignità. “Oggi so che mio papà non aveva colpe. Vado sulla sua tomba e so che è felice di poter finalmente fare ciò che avrebbe tanto voluto, ma non è mai riuscito a fare in vita, proteggermi”.
L’infanzia di Stefania: figlia di un genitore con disturbi psichici
Stefania ci racconta che era una bambina di appena 5 anni quando ha iniziato a notare in suo papà degli atteggiamenti un po’ strani, senza capire, però, di cosa si trattasse. “Ricordo che mia madre raccontava davanti a me e mia sorella che mio papà usciva di casa con un coltello, perché temeva che qualcuno volesse ucciderlo ed io non capivo chi” ci dice mentre riporta alla mente l’immagine di un uomo che rifiutava sempre le medicine, quegli psicofarmaci che avrebbero attenuato il suo malessere, e che litigava spesso con la moglie in merito a questo.
Senza capire esattamente cosa le accadesse intorno, Stefania aveva poche certezze: “Mi è stato chiaro fin da piccolissima che nella mia famiglia un senso di paura e tensione avrebbero a lungo fatto da padroni e che nessuno avrebbe mai risposto alle mie domande”.
Davanti agli interrogativi di Stefania, infatti, la sua mamma, che si doveva prendere cura di lei e della sorella, senza poter contare sull’appoggio del marito, rispondeva con il silenzio, non per proteggere le bambine, quanto più perché così le era stato insegnato. “Mia madre era figlia di una famiglia normativa e all’antica, per questo ha sempre pensato che io e mia sorella fossimo semplicemente delle bambine e che pertanto non avessimo bisogno di alcuna spiegazione”.
La donna è poi crollata sotto al peso di tutte quelle responsabilità, ci racconta Stefania, finendo per vivere quello che ai tempi fu diagnosticato come un esaurimento nervoso e che la portò a perdere la memoria, lasciando le sue figlie da sole. “Mi sono sentita davvero persa in quel momento, vedere anche mia mamma fragile mi fece sentire senza punti di riferimento ma piena di traumi” ci dice Stefania.
Il dolore blu e il senso di vergogna
Il malessere vissuto tra le mura di casa non abbandonava Stefania neanche a scuola, il luogo in cui da piccola ha dato un colore a questa emozione: “Durante le lezioni la mia testa vagava, provavo malinconia e tristezza che associavo a una sfumatura di blu a metà tra il blu elettrico e il blu notte”. Così c’erano giorni in cui Stefania sentiva di sprofondare in quel blu, senza avere il coraggio di raccontarlo a nessuno, vivendo una situazione del tutto introspettiva che ha raccontato una volta adulta, al suo psicologo. Il silenzio con cui rispondeva al suo stesso dolore era dovuto ad un forte senso di vergogna: “Avevo paura che, quando mio papà si sporgeva dal balcone per guardarmi giocare sotto casa, preoccupato che qualcuno potesse farmi del male, i miei amici lo vedessero, dunque gli gridavo di rientrare e di lasciarmi in pace” ci racconta.
Se quegli incontri riusciva ad evitarli, non poteva nulla però tutte quelle volte che un vicino di casa o un passante riportavano a casa suo padre barcollante, reduce da quelle bevute che mal si conciliavano con l'assunzione degli psicofarmaci: “Penso di aver vissuto in quelle situazioni l’imbarazzo più forte di tutta la mia vita”.
I risvolti positivi e negativi della sua infanzia
Essere figli di un genitori con disturbi psichici non ha, come spesso si crede, solo risvolti negativi, se la piccola Stefania è cresciuta “con il terrore di diventare matta come il mio papà” oggi, forte di un percorso con il suo psicologo, sa di aver ereditato anche qualcosa di positivo dai suoi genitori. “Devo a ciò che ho vissuto tra le mura di casa la mia empatia, riesco a leggere lo stato d’animo delle persone senza che mi dicano molto e sono premurosa. Sembra un paradosso ma io che ho dovuto spesso chiedere aiuto agli altri, mi trovo oggi ad essere il sostegno di molte persone”. Guardando al suo passato Stefania sa di aver ereditato anche una forte resilienza e attribuisce la sua voglia di riscatto nella vita proprio a quell’infanzia così dolorosa: “Sarei altro da me se non avessi vissuto certe cose, mi sento una sopravvissuta molto ricca, che grazie ad un’esperienza complessa e dolorosa è diventata un capolavoro”.
Un altro insegnamento che deve alla sua mamma e porta con sé è la capacità di chiedere aiuto: "Mia madre si rivolse ai servizi sociali, alle suore che ci portavano i pasti caldi perché eravamo davvero poveri, e mio padre agli psichiatri, che lo aiutavano a stare meglio". Episodi che possono sembrare duri ma che Stefania ci giura averle insegnato quanto sia essenziale cercare il sostegno negli altri. "Servono dignità e orgoglio per chiedere aiuto, qualcosa che é necessario fare quando da soli non si riesce a risolvere nulla".
Il rapporto con i suoi genitori
Stefania ha temuto per anni l'uomo che avrebbe solo dovuto amarla e proteggerla, ma che a causa della sua malattia psichica non ci riusciva. Tra loro è intercorso un lungo silenzio, dopo che la madre chiese il divorzio dal suo papà, Stefania decise di non vederlo per 7 anni, fino a che a 21 anni cambiò idea.
"L'ho rivisto in ospedale e per la prima volta l'ho perdonato, perché ho capito che non aveva colpe, i suoi comportamenti erano frutto di un suo malessere psichiatrico". Stefania ci racconta di aver guardato a suo padre, da quel momento in avanti, come si guarda ad un bambino, con tenerezza: "Mi faceva sorridere quando sul letto di ospedale se la prendeva e mi chiedeva serio, perché non gli avessero portato il budino". Nel 2009, poi, quel bimbo che cercava di divincolarsi nel corpo di un uomo, ormai anziano, è venuto a mancare e Stefania commuovendosi ci racconta di sentirlo accanto a lei in ogni suo passo. "Vado al cimitero a trovarlo e gli dico: papà lo so che avresti tanto voluto proteggermi prima e non hai potuto farlo, ma adesso puoi".
Non è invece lo stesso con la sua mamma, Stefania ci racconta che nonostante oggi vivano entrambe sotto lo stesso tetto, lei non é mai riuscita del tutto a perdonare i suoi silenzi e quelle frasi dettate dalla rabbia che l'hanno obbligata a costruire la sua autostima da adulta, nello studio di uno psicologo. "Mia madre mi ha fatto crescere in un contesto violento psicologicamente e verbalmente, perché era lo stesso in cui era cresciuta lei, eppure serviva qualcuno che spezzasse quella catena di dolore, speravo sarebbe stata lei e invece il compito è toccato a me".
La maternità
Oggi Stefania è mamma di un bambino, ormai adolescente, che ci racconta essere figlio di una relazione sbagliata, dettata dalla persona che era, una donna affamata dell’amore che non aveva avuto da bambina e che ancora cercava fuori di sé. "Ho scelto spesso persone autodistruttive, come mio padre, problematiche e sfuggenti, non con problemi psichici dichiarati, ma instabili emotivamente e non in grado di darmi quello che cercavo io, anche perché ho capito con il tempo e con l’aiuto dello psicologo che avrei dovuto cercare in me stessa la mia stabilità emotiva " ci spiega.
Crescere suo figlio da sola non è stato facile, il bimbo piangeva sempre e lei è crollata in uno stato depressivo dopo il parto, che l'ha portata a pensare che forse quella creatura avrebbe dovuto darla in adozione. "Per fortuna non l'ho fatto, sarebbe stata una scelta di cui mi sarei pentita per tutta la vita".
Quando il suo bimbo aveva 5 anni, sotto consiglio della psicologa infantile del bambino, che l'ha tranquillizzata sul fatto che nessuno le avrebbe sottratto il piccolo, dal momento che lei era una brava madre, si è rivolta agli assistenti sociali e ha chiesto aiuto. "Ho capito, grazie a loro che mi hanno aiutato, che il mio bimbo non stava così a causa mia".
Oggi lei e suo figlio 13enne hanno un rapporto meraviglioso, fatto della capacità di litigare e chiedersi scusa a vicenda. Il ragazzo conosce la storia della sua mamma che per la prima volta, non si è vergognata nel raccontare ad un'altra persona il suo dolore. "È stata un'emozione immensa quando ha raccolto una pietra frastagliata da terra, al mare, me l'ha portata e mi ha detto: mamma è uguale a te. Io non capivo e gli ho chiesto di spiegarmi, allora lui mi ha detto: è piena di insenature e sfaccettature, proprio per questo è bellissima, come te. Io lì ho capito che ce l'avevo fatta, mio figlio aveva compreso il mio dolore con estrema empatia facendolo anche suo. Io ero altro dai miei genitori e lui era altro da me, un bambino libero di essere forte e fragile, esattamente come avrei voluto essere io tutte le volte che alla sua età sprofondavo nel mio blu" ci dice Stefania, visibilmente commossa.
Il commento della psicologa
La dottoressa Francesca Tasselli, psicologa e psicoterapeuta vicepresidente dell’Associazione Contatto, si occupa attraverso il progetto Semola di genitori con disturbi psichici, fornendo loro gli strumenti necessari per prevenire la trasmessibilità del disturbo e spiegare ai loro bambini cosa sta accadendo a mamma o a papà. La dottoressa ha dunque commentato la storia di Stefania per Fanpage.it, sottolineandone i punti di forza e gli aspetti che, con l'adeguato aiuto, sarebbero potuti andare meglio.
Leggendo la storia di Stefania credo che ogni lettore possa “sintonizzarsi” emotivamente su uno dei protagonisti che vi compaiono: ci sono una mamma, un papà, una Stefania bambina e una Stefania adulta e poi il suo bambino. Inoltre ci sono i professionisti che hanno cercato di curare alcuni dei pezzetti che compongono questa dolorosa storia. Però, come spesso accade ai figli di genitori con disturbo psichico, questi bambini vivono in una sorta di area grigia, avvolti in una nebbia che non li rende visibili agli occhi degli altri.
Intendo dire che il più delle volte le cure e le attenzioni sono poste sul portatore del disturbo “conclamato” ed è lì che i Servizi si attivano. Ma cosa accade al bambino se tutto sommato se la cava, va a scuola con un rendimento nella norma, non dà particolari problemi o segnali di malessere?
Rimane appunto fuori dallo sguardo degli adulti, proprio perché si crede che ce la stia facendo.
Ma la vergogna di Stefania bambina, quando guarda in alto verso il balcone e trova un papà “diverso” dagli altri, quella vergogna è come un macigno che toglie la leggerezza dell’infanzia. Così come la paura, l’imbarazzo, il silenzio, il terrore di diventare come il proprio genitore.
Molti dei genitori che incontriamo durante i percorsi preventivi psicoeducativi che proponiamo ci dicono che proteggono i propri figli non dicendo loro niente, pensando che questo li tenga lontano dalle preoccupazioni e dalle paure. Sappiamo invece, per esperienza clinica e dagli studi del settore, che un fattore protettivo per il bambino è proprio quello di essere informato, ovviamente con un linguaggio e un livello di comunicazione adatto alla sua età, su ciò che sta accadendo in famiglia, perché lui o lei di quella famiglia ne è parte integrante e ci vive tutto il giorno tutti i giorni.
Non conosco Stefania ma leggendo la sua storia si sente che ha fatto un grande lavoro psicologico per curare quelle ferite, per cercare di far stare bene non solo se stessa ma anche il suo bambino. Forse però qualche fatica della Stefania bambina avrebbe potuto essere risparmiata se lo sguardo di alcuni adulti si fosse posto fin da subito anche su di lei.
Ecco allora che un duplice lavoro, da una parte con i genitori e i figli e dall’altra con i professionisti che possono intercettare per primi queste difficoltà può influenzare la traiettoria di sviluppo di questi bambini direzionandola verso esiti più favorevoli e andando a interrompere una catena transgenerazionale di malessere.