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Violenza ostetrica: tutte le testimonianze

“Dopo ciò che ho vissuto in sala parto, all’idea di un altro figlio preferisco essere sterilizzata”: la storia di Anna

Anna delle Foglie ha raccontato a Fanpage.it la sua esperienza vissuta in sala parto. Tra il silenzio dei medici, pratiche a cui è stata sottoposta senza alcuna informazione e l’epidurale negata, definisce il suo parto violento un deterrente per qualsiasi gravidanza futura.
A cura di Sophia Crotti
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donna in sala parto
immagine di repertorio
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Anna delle Foglie nel 2023 ha partorito il suo bambino in un ospedale della Romagna. Quello che doveva essere un parto naturale, dopo ore di agonia impresse nella sua memoria, è diventato un parto cesareo, di cui invece ricorda poco, se non di non aver visto il suo bambino al risveglio.

Il piccolo era in terapia intensiva neonatale con i medici che cercavano di assicurarsi che nonostante fosse nato in arresto cardiocircolatorio, il suo cervello non avesse riscontrato alcuna anomalia.  “Sono uscita dall’ospedale senza una spiegazione, nessuno sapeva dirmi cosa fosse andato storto durante il mio parto, l’ho scoperto tempo dopo, quando la cartella clinica parlava di una distocia meccanica, per la quale il mio bambino in quelle due ore di tentativi di farmi partorire naturalmente, sarebbe potuto morire”.

Anna ha raccontato, ancora provata, a Fanpage.it il suo parto molto complesso e la violenza ostetrica subita che la portano oggi, dopo anni di terapia, ad avere una certezza: “L’idea di avere un altro figlio oggi non mi sfiora minimamente, anche si trattasse di un cesareo programmato, al solo pensiero di rientrare in sala parto preferisco essere sterilizzata”.

La brutta esperienza al monitoraggio e la scelta di un altro ospedale per partorire

Il racconto di Anna inizia qualche settimana prima del parto, quando alla quarantesima settimana di gestazione ha deciso che l'ospedale in cui il suo ginecologo era il primario del reparto, non sarebbe stato quello in cui avrebbe partorito: "Mi sono presentata insieme ad altre donne in ospedale alle 8.00 del mattino per fare un monitoraggio, dopo di che abbiamo aspettato per 6 ore, senza poter mangiare e sedute su sedie scomode, l'arrivo di un ginecologo che ci firmasse i tracciati e ci rimandasse a casa".

L'episodio vissuto, la consapevolezza che nella struttura mancasse la terapia intensiva neonatale e che i papà, dopo il parto, potessero trascorrere solo 40 minuti al giorno con mamma e bambino, l'hanno convinta a trasferirsi qualche giorno prima del parto per poter partorire in un'altra struttura, ad un'ora e mezza dalla sua abitazione. La data presunta del parto si avvinava, ma le contrazioni non arrivavano, così il 16 gennaio si è recata in ospedale perché le venisse indotto il parto. "Del primo giorno di ricovero ho in mente un'immagine precisa, quella dell'ostetrica in turno che leggendo i fogli che avevo firmato tempo prima per il parto in acqua mi dice con aria sprezzante che un parto così avrei fatto bene a scordarmelo".

L’induzione fallimentare del parto

I medici iniziano dunque a proporle il primo dei due metodi a cui verrà sottoposta, per indurle il parto, ossia quello del palloncino, uno strumento che dopo aver dilatato meccanicamente il collo dell'utero avrebbe dovuto lasciare il corpo di Anna, ma che da subito è sembrato non funzionare. "I medici mi hanno spiegato cosa avrebbero fatto ma la procedura è stata molto invasiva poiché il mio collo dell'utero non era minimamente dilatato e molto indietro, ricordo la ginecologa fare molta fatica per inserirmi il palloncino, difficoltà che coincideva con il fortissimo dolore provavo". Lo staff promette ad Anna che da prassi lo strumento sarebbe stato nel suo corpo solamente 8 ore ma, dal momento che il collo dell'utero non riusciva a dilatarsi, senza fornirle chiare spiegazioni, decidono di lasciare il palloncino nel suo corpo per 24 ore.

parto
Immagine di repertorio

A questo punto i medici hanno provano con il secondo metodo per indurre ad Anna le contrazioni: “Hanno iniziato a darmi un farmaco, il misoprostolo. Prima di ogni assunzione dovevo fare un monitoraggio in sala parto e attendere poi 3 ore per assumere il dosaggio successivo. I medici mi lasciavano in sala parto da sola per ore intere, ricordo ancora le grida delle donne che stavano partorendo, che aumentavano la mia paura e distruggevano la mia psiche”. Tra una dose e l'altra, Anna avrebbe dovuto riposare, ma in camera con lei c'era una mamma che aveva da poco partorito e aveva al suo fianco un neonato urlante, dal momento che il nido dell’ospedale era inesistente.

Dopo 5 dosi di misoprostolo, i medici decidono verso l’1 di notte di sospendere il farmaco, dal momento che Anna aveva ormai le contrazioni, ma durante il resto della nottata queste si interrompono. “La mattina dopo, decidono dunque di darmi le ultime 3 dosi di misoprostolo e di portarmi in sala parto per rompermi il sacco, anche se ero dilatata di pochissimi centimetri". Tornata in camera, ad Anna iniziano le contrazioni che descrive come improvvise e fortissime.

Il tentativo di parto naturale e le ore di agonia

Anna ci racconta che i suoi dolori erano tanto forti da impedirle di stare in piedi o camminare e di aver dunque chiesto, data la distanza della sua stanza dalla sala parto, una sedia a rotelle: “Non me l’hanno voluta dare, ho chiesto perché e nessuno mi ha risposto, l’ostetrica continuava a dirmi di provare a camminare, così ho percorso quel corridoio aggrappata ad una ringhiera, come fosse la walk of shame”.

Arrivata in sala parto Anna ha trovato un ambiente ospitale, luci soffuse, musica rilassante e aromaterapia, per rendere il parto più umano. I dolori sono ancora forti, quindi chiede l'epidurale che le viene fatta immediatamente.

Verso le 22.00, dopo averla visitata, i medici iniziano a darle l’ossitocina, ma improvvisamente, dopo aver alzato il dosaggio tornano al dosaggio iniziale. “A questo punto chiedo cosa mi stesse succedendo e mi rispondono che il bambino aveva una lieve tachicardia, ma mi tranquillizzano, come avrebbero fatto, sull’argomento, per il resto del parto”.

Alle 23.00 i medici le dicono che è sufficientemente dilatata e può iniziare a spingere, ma l’epidurale che aveva ricevuto alle 20.00 aveva smesso di fare effetto, dunque Anna, chiede un secondo  dosaggio. “Mi negano una nuova dose di epidurale mostrando una fretta per me inspiegabile, e dicendomi che avrei solo rallentato le cose, solo dopo il parto ho scoperto che erano preoccupati per il bambino”. Anna dunque inizia a spingere e sente il suo piccolo collaborare con lei solo per la prima spinta, dopo di che non lo sente più.

È iniziato l’inferno i medici mi hanno fatto cambiare mille posizioni affinché le spinte fossero efficaci, l’ostetrica mi ha detto che respiravo male, nonostante stessi mettendo in atto la respirazione che mi era stata insegnata al corso preparto, e mi ha consigliato di trattenere il fiato ad ogni spinta. A causa dell’apnea dopo poco ero esausta e i miei tessuti per nulla ossigenati”.

Immagine di repertorio
Immagine di repertorio

Anna ci racconta che oltre alle sue urla in sala parto calava il silenzio, ogni volta che lei chiedeva cosa stesse sbagliando. In due ore di spinte l’ostetrica le ha parlato una volta sola: “Mi ha detto che finalmente avevo spinto bene e io mi sono sentita tremendamente inadeguata, non capivo come fosse possibile che dopo due ore di spinte solo in quell’istante fossi stata in grado di spingere correttamente”.

Ad ogni contrazione, ci racconta, i medici le infilavano, senza chiederle nulla e senza darle spiegazioni, le mani nel corpo: “Ogni volta provavo un dolore inimmaginabile, e ogni volta si guardavano tra loro dicendosi che non sentivano la fontanella, io chiedevo spiegazioni ma nessuno mi rispondeva”. Stremata dal dolore e dalle spinte Anna inizia a sentirsi male, ha la febbre alta e inizia a delirare, il marito le racconta, che lei ad un certo punto lo ha guardato in faccia chiedendogli di ucciderla per porre fine a quel dolore.

La sala si riempie di medici e il marito di Anna chiede se sia il caso di proseguire con un parto cesareo. “L’ostetrica risponde a mio marito che avrebbe voluto proporcelo ma che in realtà sarei potuta andare avanti con un parto naturale, semplicemente le cose sarebbero andate per le lunghe”.

Il parto cesareo in sedazione

L’improvvisa fretta dei medici Anna racconta di averla davvero compresa solo leggendo il referto da lei richiesto dopo la nascita di suo figlio, il bimbo era tachicardico da molto tempo e doveva nascere. “Mi hanno preparata per un cesareo d’urgenza e sedata, senza nemmeno avvisarmi, così dopo ore dall’inizio delle spinte, senza che io me ne accorgessi, mio figlio è nato all’1.55 ipotonico e cosparso di meconio. I medici lo hanno rianimato e aiutato a respirare attraverso la ventilazione meccanica e dopo circa 30 secondi è riuscito a fare il suo primo respiro”.

Quando Anna si è svegliata ha visto il medico porle un cerotto sulla ferita del cesareo, dunque gli ha subito chiesto dove fosse suo figlio, senza ricevere alcuna risposta. "Ad un certo punto mi si è avvicinato un anestesita che dopo avrmi lasciato il dosatore per un farmaco tra le mani mi ha guardata e mi ha detto: Auguri".

A questo punto Anna racconta di essere stata portata in sala parto dove si è ricongiunta con il marito: I dottori hanno lasciato a lui il compito di raccontarmi cosa fosse successo e di dirmi che il mio bambino si trovava in terapia intensiva neonatale, dove i medici stavano verificando che non avesse riportato danni cerebrali”. In quella sala, senza risposte, i due rimangono interminabili ore, fino a che, alle 6.30 del mattino, il neonatologo riporta loro le notizie sul bambino: “Eravamo provati e lui ci disse che il nostro bambino, appena nato, era esanime, come una bambola di pezza. Parole a mio avviso inutili e che avrei preferito non sentire”.

Solo a quel punto il medico rassicura Anna sulle condizioni del bimbo, che sta bene e nonostante se la sia vista brutta nei suoi primi attimi di vita, non aveva riportato alcun tipo di danno cerebrale.

Le pressioni dopo il parto

L’incubo di Anna, però, come ci racconta, non era ancora finito. Alle 11.00 ha avuto la possibilità di scendere in terapia intensiva neonatale, questa volta su una sedie a rotelle per incontrare il suo bambino.

Appena sono arrivata un infermiere mi ha fatto sollevare la maglietta dicendo che era ora di stimolare l’allattamento, io non ero nelle condizioni fisiche per avere le sue mani sul mio corpo, ma nemmeno nelle condizioni emotive per dubitare del parere di un esperto”.

È iniziata così una forte pressione nei suoi confronti perché allattasse il suo bambino, nonostante il dolore fisico ed emotivo che provava: “Mio figlio strillava, aveva fame e a me la montata lattea non arrivava, ho implorato perché ricevesse un po’ di latte in formula, ma quando lo ha mangiato lo ha rigurgitato. L’infermiera in turno, nel ripulirlo, mi ha detto che era colpa mia se il mio bambino stava così, perché avrebbe avuto bisogno del mio seno, non tanto come nutrimento, quanto più come fonte di conforto ma io non volevo darglielo. Io mi sono sentita tremendamente in colpa”.

Anna in preda al dolore e alle grida del suo bimbo, la notte guardava disperata l’Apple Watch sul suo polso che segnalava una o due ore di sonno al massimo. “Il nido non esisteva in quell’ospedale eravamo costrette al rooming-in, le ostetriche erano sempre impegnate e così nessuna di noi riusciva a riposare”.

Prima di uscire dall’ospedale l’ultima violenza fisica, un’ostetrica si presenta nella stanza di Anna per assicurarsi che sotto la ferita l’utero sia nuovamente contratto e le dice: “Ora farò l’ostetrica cattiva”, prima di farle una forte pressione sulla ferita.

“Preferisco essere sterilizzata”

Anna ci racconta che la violenza subita non è finita quando ha lasciato l’ospedale nel silenzio generale dei medici che non sapevano darle una spiegazione: “Nessuno ha saputo dirmi come mai il mio parto fosse andato in quel modo, allora chiesi la cartella clinica e mi fu subito chiaro che invece tutti sapevano. Nel referto si parlava di urgenza medica dovuta a distocia meccanica, in breve, nonostante tutti mi avessero rassicurata durante il parto, mio figlio rischiava di morire, era tachicardico da ore, non era proprio possibile continuare provando con il parto naturale eppure il cesareo lo ha dovuto chiedere mio marito”.

Queste nuove consapevolezze hanno accresciuto in Anna un forte senso di colpa, si è chiesta più volte se fosse stata colpa sua, se avesse dovuto chiedere lei prima quel cesareo: “Ci ho messo mesi, nello studio di una terapista, a convincermi che non era una mia responsabilità quello che era successo a me e a mio figlio, ricevendo poi una diagnosi di disturbo post-traumatico”.

Anna non ha da subito amato il suo bambino, ha avuto bisogno di tempo, di guarire da tutto quel dolore: “Per costruire una relazione sana con mio figlio ci ho messo tutta me stessa ma ho avuto incubi e pensieri intrusivi per mesi prima di riuscire a non vederlo come la causa di ciò che mi era accaduto”.

Nonostante Anna oggi stia meglio, nel raccontare la sua storia si ferma spesso, ha la voce rotta dal dolore che alla fine verbalizza con una frase, molto forte. La sua esperienza di parto così dolorosa ha avuto la meglio sul suo desiderio di maternità e oggi per lei l’idea di una nuova gravidanza è fuori discussione: “Non rientrerei mai più in sala parto, neanche si trattasse di un cesareo programmato, perché dopo ciò che mi è accaduto piuttosto di rischiare di vivere un’esperienza simile preferirei essere sterilizzata”. 

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