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Come si parla con i bimbi delle elementari dei disturbi del comportamento alimentare? L’esperta che gira le scuole

Come si parla dei disturbi del comportamento alimentare a scuola? Lo abbiamo chiesto a Laura Montanari, psicologa, counselor e vice presidente dell’Associazione Animenta, che ha stilato le linee guida per stimolare un dialogo sui dca nelle classi, presentate martedì alla Camera dei deputati.
Intervista a dott.ssa Laura Montanari
Psicologa, counselor, socia fondatrice e vice presidente dell’Associazione Animenta
A cura di Sophia Crotti
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disturbi alimentari bambini

Come si parla con i bambini delle elementari di disturbi alimentari? Ce lo ha spiegato la dottoressa Laura Montanari, psicologa, counselor e vice presidente dell’Associazione Animenta, che insieme a Foodnet ha stilato le linee guida che, martedì 22 ottobre, sono state presentate alla Camera dei deputati. La dottoressa ci ha spiegato di quanto riconoscere i disturbi alimentari precocemente e intervenire con misure tempestive ed educative prevenga anche i dca. "Alcune maestre ci chiedono di intervenire perché bambini di 7 anni parlano già di dieta o si alzano la maglietta per confrontare la grandezza della pancia".

dott.ssa Laura Montanari, psicologa, counselor, socia fondatrice e vice presidente dell’Associazione Animenta
dott.ssa Laura Montanari, psicologa, counselor, socia fondatrice e vice presidente dell’Associazione Animenta

Quando sono le maestre delle scuole elementari a chiedere un vostro intervento, come parlate di dca a dei bambini così piccoli?

Nelle scuole primarie con i bambini dai 6 a 10 anni, è perlopiù Foodnet ad occuparsi dei progetti verticali proposti alle classi. La metodologia che seguono in aula con i bambini è quella di non parlare del disturbo alimentare ma di favorire conoscenza e maggior consapevolezza di quanto alimentazione, contesto sociale ed emozione siano collegate tra loro.

Per farlo utilizzano dei giochi, dei cartoni animati sul tema o degli esempi pratici, chiedendo ai piccoli se quando sono tristi preferiscono mangiare un cibo, piuttosto che un altro o di descriverci nel dettaglio il sugo o il ciambellone che cucina la loro nonna, cercando di riflettere su come anche solo l’odore di quel piatto li faccia sentire.

I bimbi così imparano che il cibo non è solo qualcosa che nutre e dà energia ma sottende molti altri significati, legati ai ricordi o alla sfera delle emozione. Con i bambini poi gli esperti di Foodnet fanno molta attenzione anche alla multiculturalità, raccontando e facendosi raccontare dai bambini quale significato ha il cibo nella loro cultura. Oltre ai bambini vengono coinvolti anche i docenti, i genitori e osservatori esterni che restituiscono una supervisione al gruppo che ha lavorato.

Invece durante le scuole medie, i ragazzi diventano più sensibili al tema?

Sì, quando entriamo nelle scuole secondarie di primo grado sappiamo di trovarci davanti a ragazzi che sono alle prese con l’adolescenza, che non sono più bambini, ma che al contempo non sono neanche degli adulti, con spirito critico e autonomia tale da parlare senza veli del disturbo. Per farlo creiamo una relazione con i ragazzi, tramite riflessioni su macro-temi come cibo, peso, corpo e utilizzo dei social che ci permettono di capire che percezione i ragazzi hanno su questo tema. Cerchiamo di farli esprimere garantendo loro l’anonimato, per esempio chiedendo loro di rispondere su un bigliettino anonimo alla domanda: “Come vedi il tuo corpo?”. Se alcuni, dediti allo sport, lo adorano perché permette loro di fare molte cose, altri lo detestano o lo vorrebbero diverso già a 12-13 anni.

E se invece un ragazzo alza la mano e parla della sua esperienza con i dca?

Se la tematica specifica dei disturbi del comportamento alimentare esce dai ragazzi stessi, si entra invece nel dettaglio, approfondendo le loro domande. In ogni caso per comprendere cosa è rimasto delle attività svolte con i loro, chiediamo agli studenti di darci dei feedback anche in maniera creativa, attraverso cartelloni.

Cosa emerge dai feedback che i ragazzi vi lasciano dopo il vostro intervento?

Spesso ci dicono che dopo i nostri incontri hanno compreso che il cibo non si divide in “buono” e “cattivo” o che le persone non si giudicano in base alla loro fisicità.

disturbi alimentari bambini

Invece con gli alunni del liceo come vi rapportate?

Qui incontriamo spesso ragazzi che hanno già avuto a che fare con i disturbi del comportamento alimentare, quindi possiamo parlare del tema con maggiore apertura. Ovviamente non andiamo in aula dando dei parametri per definire cosa sia la bulimia e cosa sia l’anoressia, ed evitiamo riferimenti al peso o alle kcalorie, perché possono essere fonte di trigger o dare vita a degli stereotipi. Cerchiamo di riflettere sulle macro aree, come il corpo, l’alimentazione, il rapporto con il digitale e con l’altro e diamo risalto alla relazione con la famiglia. Per stimolare il dialogo usiamo anche sondaggi, che permettono di dare vita ad un dibattito di cui i ragazzi diventino parte attiva e protagonisti. Quando i ragazzi lavorano in gruppo danno il meglio di loro.

Le linee guida presentate alla Camera sono un passo avanti per la loro introduzione nei programmi scolastici?

Sì, è quello che ci auguriamo, per ora queste linee guida sono uno strumento che i nostri operatori utilizzano per formarsi e che portano con loro quando girano le scuole. Noi cerchiamo di valorizzare questo documento, fruibile da tutti online con i docenti.

Gli insegnanti vi chiamano dopo che in classe si è verificato un caso o comprendono l’importanza di prevenire i dca?

I docenti di scuole medie e licei hanno più sensibilità sull’argomento dei dca, soprattutto perché li vedono serpeggiare tra gli alunni o perché hanno avuto una conoscenza diretta del problema, un figlio o un parente coinvolto. Anche se ci è capitato che alcune maestre delle elementari ci contattassero perché i bambini parlavano già apertamente di dieta o si alzavano la maglietta puntandosi il dito l’uno contro l’altro dicendo: “io ho la pancia, tu no”. È evidente che bisogna intervenire subito, prevenendo i dca piuttosto che dovendo trovarsi a curarli quando questi bimbi diventano adolescenti.

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