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Annalisa e la sua vita senza la diagnosi di discalculia: “La scuola non mi ha capita, ma isolata e derisa”

Annalisa Scardigli ha scritto a Fanpage.it per raccontarci la sua intera vita senza una diagnosi di discalculia e i segni che questa mancanza hanno lasciato su di lei. “Vi scrivo perché spero che nessun bambino oggi provi quello che quarant’anni fa ho provato io”.
A cura di Sophia Crotti
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Annalisa Scardigli
Credits: profilo Facebook di Annalisa Scardigli

La nostra redazione riceve lettere e testimonianze relative a storie che riguardano la maternità e l’essere genitori. Se avete una storia da raccontarci, o leggendo queste parole pensate di avere vissuto una situazione simile, potete scriverci cliccando qui.

Annalisa Scardigli quando da bambina le chiedevano che cosa avrebbe voluto fare da grande rispondeva sicura: “La maestra”, poiché sognava di accendere nei bambini lo stesso fuoco che ardeva dentro di lei all’idea di dover iniziare la scuola elementare.

La scuola, quel posto che credeva un porto sicuro in cui coltivare i suoi talenti e da cui uscire formata umanamente e culturalmente, è stato invece per lei un luogo terribile. “Ho scoperto tra i banchi di non capire la matematica, di non saper ben pronunciare le parole, ma quarant’anni fa l’idea della dislessia o della discalculia neanche sfiorava gli insegnanti”.

Anni difficili quelli di Annalisa, derisa dai compagni, dai suoi maestri, che le concedevano al massimo una seconda spiegazione dello stesso argomento, e non capita dai suoi genitori, per i quali non si impegnava abbastanza.

Isolata, bocciata e poi convinta che “al massimo avrebbe potuto fare una scuola professionale di 3 anni”, non ha rinunciato ai suoi desideri facendo le magistrali e diventando insegnante di ruolo.

Quella che a tutti gli effetti ci piacerebbe concludere con un lieto fine, è in realtà una storia ben diversa e complessa. Scardigli ha lasciato la cattedra che aveva conquistato duramente perché si è resa conto, senza aiuti e diagnosi, di essere un pericolo per i suoi piccoli alunni: “Chi ama davvero la scuola lo sa e abbandona la cattedra se si rende conto di star lasciando enormi lacune ai bambini”.

Annalisa che oggi ha sessant’anni e per raccontarci la sua storia abbassa il volume del televisore che in casa è sempre acceso per farle compagnia, e abbattere quel senso di solitudine che gli anni della scuola hanno lasciato come una cicatrice in lei, ci ha scritto per un motivo molto semplice, che rivela alla fine: “Voglio dire a maestre, insegnanti, genitori e psicologi che se anche un solo bambino oggi prova quello che ho provato io, senza che nessuno faccia niente, si sta minando alla sua vita e ai suoi sogni, per sempre”.

Annalisa Scardigli

Ci racconta quali difficoltà viveva in classe e facendo i compiti?

Certo io da che ne ho memoria ho sempre provato una forte repulsione per i numeri, quando ero piccola non capivo perché pur facendo i compiti insieme ai miei genitori o in classe, aiutata dai miei compagni, non riuscivo a finirne nemmeno una. Gli insegnanti di allora, che non erano attenti ai dsa come quelli di oggi, esasperati scrivevano ai miei genitori che ero intelligente ma non in grado di applicarmi. Solo oggi, col senno di poi, so che non era questione di applicarsi o meno, io non potevo in alcun modo capire la matematica se mi veniva spiegata in maniera standard, come la capivano tutti.

E i suoi compagni di classe la comprendevano?

No, non facevano altro che ridere e ridicolizzare le mie difficoltà, non erano interessati al fatto che io rimanessi indietro, come d'altronde non lo erano i miei insegnanti. Magari mi spiegavano lo stesso concetto due volte, ma poi si stancavano, mi lasciavano indietro.

E tu come ti sentivi?

Sinceramente? Io mi sentivo una deficiente, esattamente come loro mi trattavano. Sognavo di fare la maestra, ma finite le scuole medie gli insegnanti mi avevano convinta che non avrei mai potuto sostenere un percorso di studi di 5 anni, al massimo avrei potuto fare una scuola professionale di 3 anni, facendo vacillare anche i miei sogni.

Ha seguito il suo sogno o si è lasciata convincere?

Ho fatto le magistrali e sono diventata una maestra nel luglio 1978, e a settembre ero di ruolo.

Ha sviluppato una sensibilità diversa con i bambini quando è diventata insegnante?

No, non ci sono riuscita a dire il vero, perché mi sono accorta che non ero in grado di insegnare la matematica ai bambini, dal momento che per prima non la capivo io. Ho provato a insegnare per un anno e mezzo, anche focalizzandomi sulle materie letterarie ma in quegli anni non c’erano i doppi insegnanti, e nessuno copriva per i bambini le lacune che io stavo lasciando loro. Così per amore del mio lavoro, convinta che al posto di accendere nei bimbi il fuoco della conoscenza, cosa che desideravo fare, stavo solo creando un danno a questi bambini, l’ho lasciato.  L’ironia della sorte poi mi ha vista tornare a lavorare con i numeri, dal momento che sono diventata cassiera bancaria.

Pensa che se avesse ricevuto una diagnosi le cose sarebbero andate diversamente?

Io credo che se avessi avuto una diagnosi allora, dal momento che comunque non c’erano i mezzi, io allora avrei davvero fatto una scuola professionale, per evitare di dover poi interrompere il mio percorso di vita. Certo che se invece, dopo una diagnosi, avessi avuto gli strumenti per poter capire davvero tutte le materie che per i miei compagni sembravano essere semplicissime, allora avrei vissuto la vita in maniera diversa.

I suoi genitori cosa pensavano di lei?

Davano credito agli insegnanti, pensavano che non fossi in grado di impegnarmi seriamente nello studio, perché mi interessavo troppo ad altro. Ricordo che mia madre mi trovava spesso a guardare fuori dalla finestra e mi diceva “Ma al posto che contare gli uccelli che volano fuori, impara un po’ a contare con i numeri che hai sul quaderno”. Ero intelligente ma svogliata secondo loro.

Come la fa sentire il fatto che ci siano bambini o ragazzi che ancora oggi non ricevono una diagnosi in tempo o la ricevono dopo molto tempo?

Vorrei dire una parolaccia ma dirò solo che mi arrabbio moltissimo, come per poche altre cose al mondo. Perché così facendo si priva il bambino della gioia di sentirsi parte della sua classe e uguale agli altri. Inoltre lo si fa sentire stupido, non discalculico o dislessico come invece è. Dunque il bimbo si sente isolato dai compagni e non in grado di capire e confrontarsi neanche con l'insegnante, finendo per mettersi e sentirsi, a causa degli altri, sempre in disparte.

Lei come superava questo senso di isolamento?

Io mi rifugiavo nella lettura, ci mettevo tantissimo a leggere una pagina ma mi piaceva perché mi avevano formata per leggere in casa. Quando non trovavo risposte ai miei perché aprivo un libro e partivo per un viaggio, in cui non era importante che gli amici non mi parlassero e si prendessero gioco di me o che le insegnati non mi capissero, lì ero libera, uguale a tutti gli altri.

C’è un ricordo d’infanzia particolarmente doloroso?

Sì, ne ho almeno un paio. In quinta elementare all'esame la maestra di allora che era consapevole delle mie difficoltà in matematica ma non faceva nulla per sanarle mi chiese di fare 10 x 10, io scrissi l'operazione alla lavagna, la misi in colonna e ottenni 10, era evidente che non avevo compreso il meccanismo, ma lei e tutti i miei compagni risero.

E l'altro episodio?

L'altro è forse anche peggio, ero alle medie, avevo avuto molti battibecchi con l’insegnante di matematica e alla fine ero finita per non chiederle più nulla. Ricordo che mi diede il debito a giugno, con 3 e che a settembre mi bocciò col 2. Fu una delle esperienze più brutte della mia vita. Ancora mi tormenta questo episodio, voleva farmi sentire stupida e rifiutata e ci era riuscita. Da lì in avanti sono diventata un’alunna difficile e penso anche una figlia difficile, che a furia di sentirsi incompresa e isolata aveva covato dentro una rabbia che scaricava poi su chi le voleva bene. Per questo oggi dico ai genitori di accettare la diagnosi dei figli e agli insegnanti di accorgersi di che tipo di alunno hanno davanti, perché nessuno arrivi a compiere un gesto che secondo me è il fallimento dell'umanità intera: lasciare la scuola prima del tempo.

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