Lo sapevate che in Italia esiste “un problema molto grosso di educazione finanziaria, di comunicazione con i risparmiatori”? Io lo sospettavo da qualche annetto, ma ora che lo ha dichiarato il governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel corso di un’audizione in Senato, mi sento improvvisamente più rassicurato. Secondo il governatore, peraltro, “il punto delicato è come si procede: noi (Banca d’Italia, ndr) abbiamo da tempo impostato un approfondimento con la Consob e anche con i ministeri dell’Economia e dell’Istruzione per rivedere l’intera questione dell’educazione finanziaria”. Allora siamo a posto, se le soluzioni che verranno partorite saranno efficaci ed efficienti quanto il fondo “privatissimo” Atlante o il provvedimento a favore della “buona scuola” stiamo a posto.
Fuor d’ironia, che l’Italia abbia un deficit di educazione finanziaria, e non solo, è evidente a tutti da tempo: anche solo scorrendo l’ultimo report elaborato come ogni anno da Standard & Poor’s per la Banca Mondiale sulla “Financial literacy around the world” (educazione finanziaria nel mondo), l’Italia non fa una gran figura, anzi si legge che “Italia e Portogallo hanno alcuni dei tassi di educazione finanziaria più bassi del Sud” Europa; se poi si allarga lo sguardo alle sette maggiori economie mondiali, l’Italia è buona ultima con meno del 40% dei maggiorenni che dimostra una sufficiente conoscenza dell’argomento.
Siccome a pensar male si fa peccato ma di solito ci si becca, viene da chiedersi a chi possa aver giovato in questi decenni la mancanza di investimenti adeguati per aumentare il grado di educazione finanziaria degli italiani. Alle banche, forse, che così hanno potuto fare finta di essere tutte uguali, proponendo prodotti e servizi pressoché analoghi a costi sostanzialmente allineati, attente a non farsi troppa concorrenza perché si sa, il mercato è una brutta bestia signora mia e rischia di far perdere il posto a tanti (soprattutto a chi non ha competenza alcuna ma magari è all’interno di un consiglio di amministrazione per nomina politica, o ottiene promozioni o prestiti grazie all’appartenenza a un sindacato o a categorie di clientela molto “particolari”)?
O forse alle reti di promozione finanziaria, che pure si sforzano di essere differenti dalle banche tradizionali, salvo poi proporre prodotti e servizi a prezzi significativamente superiori a quelli medi europei e statunitensi, perché in fondo devono remunerare le proprie strutture di vendita e fa niente se non tutti i 50 mila promotori finanziari (pardon, ormai “consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede”) sembrano avere competenze che vadano al di là del mero aspetto commerciale? Chissà, certo è che un mercato come quello italiano, dove l’offerta è diversificata solo nominalmente ma sostanzialmente è omogenea al punto che gli stessi addetti ai lavori, da almeno un ventennio, sono abituati a pensare al mercato del risparmio gestito e amministrato come un mercato di “commodities”, ossia di materie prime poco o per nulla diversificate, l’ignoranza dei risparmiatori può essere una risorse in grado di arricchire tanti intermediari.
Peccato che finché le cose filano lisce si tratti “solo” di costi superiori al necessario, tanto che come ha dimostrato per anni l’ufficio studi di Mediobanca raramente fondi comuni e gestioni patrimoniali sono stati in grado, in Italia, di offrire rendimenti pari o superiori a quelli che chiunque avrebbe potuto conseguire semplicemente investendo nei vecchi, cari titoli di Stato. Ora che a sette anni dall’esplosione della crisi economico-finanziaria mondiale lentamente si sta alzando il velo sulla fragilità strutturale del sistema, si scopre che non solo i risparmiatori italiani sono stati sistematicamente tosati come pecore, ma che hanno spesso e volentieri corso rischi sproporzionati ai rendimenti.
L’ultimo esempio è venuto dall’annuncio dato ieri dal Cda della Banca popolare di Vicenza (BpVi), che ha deciso, d’accordo coi suoi advisor (ossia con Unicredit, che deve garantirne l’aumento di capitale da 1,75 miliardi di euro) di proporre una “forchetta indicativa” di 0,1-3 euro per azione nella quale il prezzo massimo è vincolante, il minimo è “non vincolante”, ossia non si può escludere risulti alla fine ancora più basso per ridurre l’inoptato che già ora si preannuncia elevato (tanto che il fondo Atlante, messo su in tutta fretta per ripartire il rischio di esecuzione di questo e altri aumenti tra le principali banche e assicurazioni italiane, ha buone probabilità secondo alcuni operatori di finire col ritrovarsi azionista di maggioranza dell’istituto entro l’estate).
Per chi non ricordasse le azioni di BpVi, il cui valore era stato fissato a 62,5 euro dall’assemblea annuale del 2014, erano già state svalutate a 6,3 euro l’una a inizio febbraio, ora con questa nuova operazione chi era già socio vede quasi del tutto azzerato (lo “sconto” varierà tra il 95% e il 98%) il capitale residuo: se non è un “bail in” poco ci manca, ma la stessa BpVi ha ritenuto nelle scorse settimane non necessario ricorrere ad un’azione di responsabilità nei confronti dei vecchi amministratori. A questo punto il mercato attende di vedere come finirà l'aumento e a quale valore Veneto Banca (che deve raccogliere un miliardo) lancerà a sua volta la propria ricapitalizzazione, dopo aver già ridotto da 39,5 a 7,3 euro per azione il valore dei suoi titoli lo scorso dicembre. Beati gli ignoranti che vivono sereni senza farsi troppi problemi, almeno se non hanno mai investito capitali in Italia.