C'è una oggettiva difficoltà a scrivere di Matteo Renzi e della sua reggenza a Palazzo Chigi. C'è una acclarata difficoltà nel rapportarsi al "fenomeno" Beppe Grillo. E c'è, in definitiva, una evidente complessità da parte di analisti e commentatori nel raccontare quello che si avvia ad essere il vero e forse duraturo dualismo della politica italiana. La cosa paradossale è che complessità e difficoltà non derivano da aspetti marginali o da lacune "colmabili", ma dal modo stesso in cui sono (stati?) costruiti i due personaggi, dalla loro autorappresentazione e dall'agiografia che viene tramandata dai fedeli. Sembra quasi che ogni considerazione di merito sia una scelta di campo, un referendum personale, una questione di vita o di morte.
Da una parte c'è il Messia fiorentino, l'ex rottamatore, l'uomo dei tweet e degli annunci, quello del fare, ma del fare subito. Che è riuscito in pochi mesi a creare un rapporto diretto tanto con i suoi sostenitori che con i suoi detrattori, fino a piegare (ulteriormente, verrebbe da dire) il dibattito politico alle logiche del tifo da stadio. Così Renzi non si discute, sia ama o si odia. E ogni minimo accenno alla riflessione nel merito viene immediatamente etichettato: disfattismo, "gufata", benaltrismo, conservatorismo e via discorrendo. Mentre ogni risposta di senso ad obiezioni di carattere "ideologico" viene sostanzialmente bollata come anacronistica o abilmente elusa con le tradizionali supercazzole (perdonatemi, ho cercato senza successo un'altra parola che rendesse il senso). Senza contare l'utilizzo delle locuzioni senza tempo né padrone: "lasciatelo lavorare", "non era mai stato fatto prima", "il cambiamento richiede sacrifici", "dategli tempo" e via discorrendo. Il tutto, si badi bene, con la solita retorica della rapidità, della velocità di pensiero e di azione. Come il Fanfani di Fortebraccio, insomma.
Dall'altra parte c'è il Messia incazzato, l'ex comico, l'uomo dei vaffa e degli insulti, quello che ha in tasca la verità assoluta e detiene il monopolio della morale. Che è riuscito in pochi anni a creare dal nulla un partito che aspira a "vincere" le elezioni europee e che, a ragione o a torto, ha cambiato le dinamiche politiche e la vita delle istituzioni (che lo abbia fatto come "fattore primo" o come "interprete privilegiato di un clima preesistente" sinceramente cambia poco). E che, in poche parole ha prodotto una radicalizzazione dello scontro tale da non ammettere distinguo o sottigliezze. Così Grillo non si discute, si ama, si odia o ti caccia. In questo caso ogni critica è frutto di un pregiudizio, chi la esercita è un servo, un venduto, un troll, uno che fa favori alle mafie e che ha la responsabilità del declino del Paese. Anche qui le locuzioni a supporto sono sempre le stesse: "E quelli di prima allora?"; "Meglio il Pd che ha regalato 7,5 miliardi di euro alle banche?"; "La gente si suicida per la crisi e loro prendono i finanziamenti pubblici" e via discorrendo. Il tutto, si badi bene, con il crisma dell'irripetibilità del momento, della crociata, della lotta senza quartiere al nemico.
Se questo Foreman – Alì de noantri rimanesse confinato alla presenza continua dell'uno nei Tg e su tutti i media nazionali e all'iperattività dell'altro sul suo blog e sui social network, non sarebbe nemmeno un dramma. Del resto abbiamo convissuto per anni con il pan-berlusconismo senza colpo ferire (e forse senza mai avversare del tutto la visione del mondo dell'ex Cavaliere). Il punto è che questa contrapposizione deborda ed è replicata a cascata dai militanti delle opposte fazioni. Che, per di più, si credono in battaglia, in una sorta di guerra ideologica da combattere colpi di slogan, propaganda, semplificazione e banalizzazioni. Con il risultato di produrre una continua mistificazione dei fatti, una sovrapposizione dei livelli (quello dell'analisi politica, della propaganda e della "pratica" istituzionale"), secondo "narrazioni costruite a tavolino", del tutto autoreferenziali. E soprattutto con l'effetto di schiacciare tutto ciò che incontrano, polarizzando lo scontro e cambiando finanche il senso di parole e messaggi. Così la rigidità di fronte alle critiche diviene "resilienza" per Renzi e "intransigenza" per Grillo. Il verticismo e il dirigismo per i renziani si chiamano "disintermediazione", per i grillini "difesa dell'integrità del Movimento". Le balle vere e proprie diventano "una traccia" per gli uni e "una provocazione" per gli altri". Il populismo e la demagogia sono invece "vezzi comunicativi" per i renziani, "la più alta espressione della politica" per i grillini. Ciò che c'è in mezzo conta poco, evidentemente. È appunto il tifo da stadio, che è tanto più accanito quando si avvicina il grande evento. Fosse pure un semplice campionato europeo, ehm, normali elezioni europee.