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Opinioni

Vere riforme e falsi miti

Nonostante quel che sostiene Confindustria il primo problema da risolvere per far ripartire la crescita in Italia non è il costo del lavoro, ma il credito, il fisco e l’innovazione. Smettiamola di prenderci in giro.
A cura di Luca Spoldi
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Giorgio Squinzi designato presidente di Confindustria

Forti coi deboli, conniventi coi forti. Il costo del lavoro rappresenta in Italia quote variabili tra il 3% e il 10% del fatturato delle grandi imprese, dipendendo per oltre un terzo del suo ammontare da tasse e contributi che imprenditori e lavoratori pagano sulle retribuzioni. Che sia questo il primo e più importante problema da risolvere per far recuperare efficienza e flessibilità al sistema produttivo italiano è una posizione assolutamente e solamente ideologica che non trova corrispondenza alcuna con la realtà dei fatti. Così quando la mia ex collega di università Emma Marcegaglia, presidente uscente di Confindustria, ribadisce gli imprenditori italiani “ovviamente” sono “responsabili, nessuno di noi sta chiedendo di stravolgere tutto, però ci sono alcuni punti, in particolare sulla flessibilità in entrata, che se non dovessero venire cambiati dal nostro punto di vista non solo non creerebbero nuova occupazione ma rischierebbero di ridurla” non sta “ovviamente” proponendo alcuna ricetta per far ripartire l’economia (e quindi l’occupazione, tanto meno quella stabile e non precarizzata a vita come sembra ormai piacere a buona parte delle aziende italiane che nelle posizioni di Confindustria si riconoscono), solo sta ideologicamente mostrando “i denti” e scoprendo quello che è uno dei limiti seri dell’apparato produttivo italiano: essere governato da un manipolo di imprenditori con relativamente pochi capitali (a livello aziendale quanto meno, essendo purtroppo ancora vero il detto “impresa povera, imprenditore ricco” che per anni ha contraddistinto il settore privato del Belpaese) e una visione miope della competizione economica, in cui non esiste il concetto di qualità, tanto meno di lifestyle o relazioni con la clientela, ma solo di costi (da comprimere per ottenere margini di profitto i più elevati possibile con cui compensare elevati oneri fiscali e infrastrutturali) e al limite di mercati, con pochissime eccezioni “virtuose” a questa miopia culturale. No, non è il costo del lavoro il primo e più importante ingrediente della ricetta per far ripartire il paese, ma è il solo su cui in questi anni i nostri “grandi” (si fa per dire) imprenditori si sono aggrappati per sopravvivere, trovando tale strategia più semplice da perseguire che non la strada, sicuramente più corretta e proficua sul lungo periodo ma meno redditizia a breve, di chiedere un efficientamento del settore creditizio e un fisco meno pressante  e più trasparente. Il problema vero in Italia resta infatti legato al credito e al fisco: troppo scarso l’uno, troppo pesante per i contribuenti onesti l’altro, col risultato che col passare dei decenni il credito è stato concesso (anche più del dovuto) a pochi “grandi gruppi”, con relazioni molto forti con le banche e il mondo politico che attorno ad esse gravita da sempre, mentre il fisco ha chiuso un occhio se non tutti e due di fronte alla dilagante evasione (si parla di 180 miliardi di euro di controvalore annuo, pari a circa un terzo delle entrate fiscali). Forti coi deboli e conniventi coi forti, i “grandi imprenditori” e le “grandi imprese” italiane hanno sempre trovato questo sistema più comodo che non chiedere maggiore efficienza a banche e fisco perché tale richiesta avrebbe dovuto avere in contropartita una maggiore efficienza anche del sistema produttivo, con la conseguente riduzione di molte rendite di posizione. La concorrenza e l’efficienza, come ho avuto modo di dire, non appartengono  alla cultura di questo paese che giudica più interessante domandarsi chi sarà appoggiato tra i candidati (o pseudo tali) alla presidenza di UniCredit piuttosto che riflettere su quali errori siano stati commessi dalla dirigenza di uno dei due principali gruppi creditizi italiani e su quali strategie lo porteranno fuori dalle secche (e con quali conseguenze per le aziende italiane piccole, grandi e medie).

Una ricetta pasquale. Parlando in questi giorni con un amico economista, ho avuto l'ennesima conferma che in Italia più che non essere in grado non si vuole uscire dalla crisi, perché la crisi offre alibi a ciascuno per mantenere o persino rafforzare le proprie rendite, ai danni dell’efficienza del sistema ma a beneficio dei propri specifici interessi corporativi, che si sia tassisti, farmacisti, notai, avvocati, commercialisti o industriali tutti. E poco può un governo tecnico che pure potrebbe avere la competenza per mettere mano a riforme strutturali se poi il sostegno al suo operato è limitato a poche misure d’emergenza che non incidono sugli equilibri complessivi del sistema venutisi a creare da decenni. Eppure la ricetta per creare le condizioni per ripartire e redistribuire la ricchezza in modo più equo (con benefici per tutti) esisterebbe e sarebbe facilmente applicabile in tempi rapidi. Basterebbe aumentare il grado di concorrenza fiscale consentendo soglie più elevate di detraibilità di spesa, cosa che porterebbe all’emissione di un maggior numero di fatture (necessarie a testimoniare spese detraibili) o alla concessione di sconti “pesanti” per chi volesse continuare a operare “in nero” (il che genererebbe comunque una maggiore e probabilmente migliore distribuzione della ricchezza, aumentando la possibilità di ripartire il reddito disponibile su uno spettro più ampio di spese per beni e servizi). Poi sarebbe necessario estendere da 5 a 10 anni il periodo di tempo concesso al fisco per verificare la congruità delle dichiarazioni fiscali (rivedendo se possibile il meccanismo degli studi di settore che tante distorsioni ed elusioni ha prodotto in questi anni), assumendo al tempo stesso alcune migliaia di nuovi ispettori fiscali. Strette le maglie della rete del fisco e creato le premesse per recuperare una parte cospicua dei 180 miliardi di euro di evasione fiscale annua si potrebbe parallelamente concedere un calo della pressione fiscale così da mantenere un gettito invariato a livello assoluto ma rendere al tempo stesso più attraenti nuovi investimenti nel paese. Le aziende, sia italiane sia internazionali, non investono in un paese solo guardando a quanto costa un singolo dipendente o a quanto facilmente sia licenziabile (o quanto facilmente il costo del dipendente sia scaricabile sulle spalle della collettività): poteva essere vero in un’epoca di lavorazioni labour intensive, non lo è più in un mondo in cui alcuni ragazzi creano un’applicazione come Istigram che in meno di due anni dalla sua concezione arriva a valere un miliardo di dollari.

Occorre vivere e intraprendere al passo coi tempi. Siamo nell’epoca delle attività capital intensive, del terziario avanzato, disponiamo di uno dei patrimoni più preziosi al mondo in fatto di monumenti, musei, ricchezze paesaggistiche, enogastronomiche: potremmo e dovremmo combinare un utilizzo efficiente del capitale con misure a sostegno dell’innovazione e sfruttare al meglio la ricchezza di questo paese che non è certamente fatta di materie prime o produzioni industriali “pesanti” (che pure potrebbero essere organizzate meglio di come sono e dunque produrre maggiore ricchezza per tutti). Non possiamo e non dobbiamo permettere a chi  per 20 e più anni ha avuto interesse a offrirci beni e servizi che gli imprenditori italiani non hanno saputo produrre o distribuire di imporci “ricette” miracolose (per loro) che finiranno col farci perdere la proprietà delle nostre residue ricchezze senza creare le condizioni per far ripartire la nostra economia o efficientare le nostre banche o le nostre aziende. Mario Monti si è trovato a dover operare in emergenza e ha fatto quello che è stato possibile, lo stesso si può dire per Mario Draghi ai vertici della Bce. Dato un segnale importante ai mercati di discontinuità con gli errori e gli orrori di un passato anche recentissimo è ora necessario completare l’opera passando da un’azione improntata al breve termine a un rilancio strategico di lungo respiro, dai tagli delle spese e dagli aumenti di imposta bisogna passare alla riforma del fisco, dalla fornitura di liquidità alle banche occorre passare alla ristrutturazione del mercato del credito, altrimenti i mercati torneranno a dubitare come in parte già stanno facendo e gli spread (e il costo del debito) ad aumentare, vanificando gli sforzi fatti e rendendo ancora meno probabile centrare il sentiero di risanamento che a parole il "fiscal pact" fortemente voluto dalla Germania dovrebbe consentire. Fatto questo la riforma del lavoro e in parallelo la continua “manutenzione” della previdenza saranno certamente provvedimenti importanti, ma da affrontare in modo pragmatico e senza pregiudizi ideologici di sorta, neppure da parte dei “professori”. Perché dalle riforme che andranno in porto dipenderà la portata e la qualità del rilancio economico e con esso del futuro che saremo in grado di garantire a noi e ai nostri figli e nipoti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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