Perché l’Italia fatica così tanto a crescere da 15 anni, ve lo siete mai chiesti? E avete mai pensato a quali rimedi si potrebbero porre in essere? Torno sull’argomento della crescita perché al di là delle analisi tattiche delle banche d’affari sui mercati più o meno promettenti su cui investire (una dell’ufficio di analisi quantitativa di Morgan Stanley segnala come sia ancora più interessante scommettere su mercati “core” dell’Europa come, nell’ordine, Germania, Norvegia, Austria, Svezia e Svizzera, mentre pare poco opportuno puntare su “periferici” guidati peraltro dall’Italia, che recupera qualche posizione venendo ora preferita a Irlanda, Belgio, Spagna, Grecia e Finlandia) mi pare che il mondo politico e quello economico siano ancora abbastanza frastornati o distratti (o comunque impegnati in un gioco di “pressioni” intrecciate a tutela degli interessi di questa o quella specifica lobby o cricca) e parlino molto di “crisi” e poco dei motivi che in questa crisi ci hanno portato e ancora meno delle soluzioni che possono esservi per uscirne.
Come ho detto più volte il problema principale dell’Europa e dell’Italia non è al momento un problema di rigore dei conti o di “non vivere al di sopra dei propri mezzi” come i moralisti spicci tendono a dipingere appiattendosi sulla (errata) ricetta di Angela Merkel (che funziona solo a vantaggio della Germania, per nulla nei confronti della Grecia e rischia di avere un esito dubbio nel caso dell’Italia nonostante i risultati migliori delle attese finora conseguiti). Il problema è uno solo, la crescita, venuta meno per una costante perdita di competitività delle aziende italiane, per un eccesso di finanza, perché in un mondo dove le barriere sono crollate (per fortuna) ogni politica economica va pensata in termini globali e non locali senza rimpiangere il passato ma avendo la capacità di progettare il futuro.
Purtroppo in Italia la capacità di “pensare in grande” e di “pensare al domani” manca da tempo. Le aziende sono strozzate da una burocrazia ottusa e da mille incertezze politiche (anche dovute alla persistente sindrome di “ninby”, ossia “non nel giardino dietro casa mia” che pervade tutta la Penisola, che si tratti di autorizzare una discarica o un impianto di rigassificazione, la Tav o un nuovo impianto industriale, si veda la decisione di British Petroleum di rinunciare dopo 11 anni di tentativi e 250 milioni di euro spesi inutilmente al progetto di un rigassificatore a Brindisi), gli azionisti, tanto più se di natura finanziaria, sono tentati più di vendere che di acquistare (vedi Ducati che potrebbe finire in mano al principale gruppo mondiale delle due ruote, l’indiana Hero MotorCorp, facendo una fine analoga agli yacht di Ferretti, finiti sotto il controllo dei cinesi di Weichai) e quando programmano nuovi investimenti lo fanno all’estero (come fa Cnh, gruppo Fiat Industrial, che si prepara a investire 600 milioni di reais brasiliani per un nuovo stabilimento per macchine per costruzioni da avviare a produzione entro il 2014, mentre Fiat guarda alla Russia e deve smentire, senza troppa convinzione peraltro, la volontà di procedere a ulteriori chiusure degli impianti italiani nei prossimi anni). Se a questo si aggiungono errori di management, tendenza a privilegiare le relazioni a scapito delle competenze, l'influenza di eventi esterni (dal fallimento di Lehman Brothers a eventi catastrofici o tensioni geopolitiche) il quadro non può essere molto dissimile da quello che è attualmente.
Servirebbe, accanto a una politica industriale in grado di concedere agevolazioni e sconti fiscali (e semplificazioni burocratiche) ai settori strategici per il futuro del paese e di incentivare la ricerca e l’innovazione, un generale svecchiamento dei quadri direttivi delle aziende private e pubbliche, un ricambio ai vertici (ma anche alla base) di gruppi grandi e piccoli, un nuovo impulso alla formazione permanente pubblica e privata che non si trasformi nelle consuete regalie a questo o quell’istituto laico o confessionale che sia; servirebbe una nuova politica di selezione del personale pubblico che premiasse i migliori e più competenti e attivi, come pure norme che agevolassero gradualmente il reinserimento di chi nel settore privato il lavoro lo dovesse perdere (nell’ipotesi sempre più probabile di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro che comporti un allentamento delle garanzie che oggi coprono solo una minoranza di lavoratori italiani e ne escludono la gran parte), ad esempio copiando quel che si fa in Svizzera dove dopo un certo numero di mesi in cui si percepiscono sussidi pubblici si deve seguire un corso di riqualificazione, al termine del quale si debbono sostenere dei colloqui di selezione, esauriti i quali o si accetta una proposta di lavoro o si perde il diritto a ricevere ulteriori sussidi.
Servirebbe soprattutto che le banche tornassero a fare il loro mestiere e prestassero denaro con cura a famiglie e imprese che diano ragionevoli garanzie di restituire le somme affidate (lasciando magari a operatori specializzati, non necessariamente controllati dalle banche medesime, il compito di investire in capitale di rischio). Peccato che le banche i soldi continuino a preferire tenerli nelle casseforti della Banca centrale europea: ieri notte i depositi overnight hanno toccato un nuovo record storico salendo a 827,534 miliardi di euro, dopo due operazioni tra dicembre e febbraio con cui la Bce ha fornito alle banche stesse oltre mille miliardi di liquidità per tre anni a tasso fisso all’1% annuo). Certo, le banche sono imprese e quindi prestano solo se possono sperare di guadagnare e prestano maggiormente là dove possono sperare di guadagnare di più e coi tassi attuali prestare denaro a imprese e famiglie in proporzione al rischio percepito non sembra molto proficuo.
Eppure che continuino a lungo a vivere solo di carry trade sfruttando “senza rischio” (fino alla prossima slavina dei mercati) la differenza di tassi tra il costo della liquidità fornita dalla Bce e i rendimenti dei titoli di stato italiani e spagnoli (e un domani forse irlandesi o portoghesi se proseguiranno su un sentiero “virtuoso” di rientro dalla crisi) sembra improbabile. Così non ci resta che attendere che Monti tenga fede alle promesse, presto svanite, di liberalizzare e svecchiare l’Italia (e di ridurne il carico fiscale), che non si pieghi al diktat delle banche sulla commissione di massimo scoperto (un modo che esiste solo in Italia per aumentare forzosamente la redditività dell’attività creditizia maggiorando il costo per la clientela senza nulla concedere in termini di qualità dei servizi), che provi a mettere in campo poche semplici norme in grado di snellire il carico burocratico delle imprese e premiare chi investe, innova, assume.
Chi insomma oltre a guardare ai guadagni “tattici” per il proprio portafoglio dimostra di avere una visione “strategica” che guardi anche al guadagno in termine di maggiore benessere per l’Italia tutta, dalle Alpi alla Sicilia. Perché ridare agli italiani la speranza di un futuro migliore di questo incerto e precario presente per un’economia come quella italiana che fa girare tuttora oltre 4 miliardi di euro al giorno (sabati e domeniche comprese), ossia circa 3 milioni di euro ogni minuto che passa, non è un’impresa impossibile ma solo una questione di scelte, a livello pubblico come privato.