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Opinioni

Usa troppo forti o Europa troppo debole?

Sono gli Usa che sono troppo forti o l’Eurozona che è troppo debole? I dati macro non lasciano molti dubbi, ma sono influenzati pesantemente dalle differenti politiche monetarie figlie a loro volta di una diversa impostazione politica dei due blocchi. In mezzo l’Italia rischia di fare la fine dl vaso di coccio tra vasi di ferro…
A cura di Luca Spoldi
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E’ l’Europa che è troppo debole o gli Usa che sono troppo forti? O sarebbe meglio dire: è la politica monetaria del vecchio continente troppo rigida o quella statunitense troppo disinvolta? Per l'Italia e la sua economia, purtroppo, riscia di non fare molta differenza ormai, ma stiamo ai dati: Eurostat ha annunciato stamane che Prodotto interno lordo di Eurolandia (Ue-17) è salito appena dello 0,1% nel terzo trimestre rispetto al trimestre precedente, il che significa che il Pil dell’area dell’euro continua ad accusare calo dello 0,4% su base annua destagionalizzata. A frenare sono stati in particolare i consumi (+0,1% trimestrale nella Ue-17) e le esportazioni (+0,2%), mentre a livello di singolo paese il Pil è apparso in calo in Cipro (-0,8%), Repubblica Ceca (-0,5%), Francia (-0,1%) e Italia (-0,1%) ed in frenata anche in Germania (+0,3% contro il +0,7% del trimestre precedente). Il dato getta una luce sinistra sulle prospettive di una ripresa economica più “vigorosa” nei paesi dell’area dell’euro (non necessariamente solo della “sponda Sud”), smorzando di molto, se non spegnendo del tutto, la famosa “luce in fondo al tunnel” che da oltre un anno i governanti pro-tempore del “Bel Paese” si ostinano ad annunciare.

Nel frattempo i dati che giungono da oltre oceano sono di tutt’altra natura: se lunedì l’indice Ism dei direttori acquisti del settore manifatturiero era apparso migliore delle attese toccando a novembre i 57,11 punti, il massimo dall’aprile 2011, contro attese di consensus pari a 55,1 punti (un indice superiore a 50 punti segnala una fase di espansione tanto più marcata quanto maggiore è il valore dell’indice), oggi il dato, sempre riferito a novembre, relativo alle assunzioni del settore privato calcolato da Adp Research, che precede di un paio di giorni il dato ufficiale dei “non farm payrolls” (posti di lavoro non agricoli) è a sua volta apparso migliore del previsto con 215 mila nuovi posti di lavoro netti nel settore privato contro i 170 mila nuovi posti che il mercato si attendeva. A questo punto gli analisti si attendono per venerdì un numero complessivo di nuovi posti di lavoro creati il mese scorso attorno a 429 mila ed una disoccupazione in calo al 7,2%, sui minimi dal 2008.

Lasciamo agli investitori la reazione delle borse, negativa in Europa come negli Stati Uniti, perché se nel vecchio continente la repressione fiscale continua a deprimere la domanda interna, cosa che penalizza in particolare ma non solo i comparti più ciclici come l’auto o la telefonia, per la scarsa gioia tra l’altro di Fiat e Telecom Italia, negli Usa dati superiori alle previsioni potrebbero indurre la Federal Reserve ad avviare, magari già nei primi mesi del prossimo anno quando sarà entrata in carica Janet Yellen, il “tapering”, ossia il graduale azzeramento degli acquisti di bond sul mercato da parte della Federal Reserve (acquisti che finora sono proseguiti al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese proprio per sostenere la ripresa economica agendo di fatto come un’ulteriore iniezione di liquidità). Proprio questo timore fa tuttavia emergere la variabile che davvero distingue gli Usa dall’Europa: là la Federal Reserve agisce da banca centrale di un’unione politica di stati federati, avendo come obiettivo sia il controllo dei prezzi sia la ricerca della massimizzazione dell’occupazione.

Un errore strategico di fondo, secondo molti, dovuto all’ossessione tedesca per l’inflazione, del tutto comprensibile dopo i disastri che una crescita fuori controllo dei prezzi ha provocato nel corso del Novecento ma che costituisce un errore le cui conseguenze finiscono con l’essere pagate, in questo momento storico, dai paesi più deboli (o meno “virtuosi” se così piace a qualcuno definirli) della periferia Sud europea (ma a giudicare dai dati sopra ricordati sempre più anche del centro Europa). Si potrebbe correggere l’errore sostituendo l’attuale Articolo 2 dello statuto della Bce con l’articolo 2A della Federal Reserve, come propongono alcuni, ma non è detto che la cosa funzioni (anzi, in assenza di un’unione politica c’è da essere pressoché certi che non funzionerebbe). La verità è che un’unione politica nessun governante europeo la desidera, se non come possibile soluzione dei “propri” problemi, che ovviamente sono diversi a seconda dei paesi, stante i perduranti squilibri socio-economici oltre che culturali cui Mario Draghi da solo non può porre rimedio neppure lasciando i tassi vicini a zero per i prossimi decenni.

Il costo maggiore di questo stato di cose sta per essere pagato ancora una volta dall’Italia, che avendo voluto mostrarsi “virtuosa” (sotto il governo Berlusconi prima e i governi Monti e Letta poi) senza avere la capacità e forse la voglia di prendere i provvedimenti del caso (ossia: tagliare la spesa improduttiva; aprire alla concorrenza i settori vitali del paese come il credito, l’energia e i trasporti; investire in innovazione; risalire lungo la filiera produttiva così da controbilanciare la naturale tendenza alla delocalizzazione degli impianti produttivi dei settori più maturi) rischia di strozzarsi con le proprie mani a colpi di continui e reiterati aumenti del carico fiscale che grava su imprese e famiglia. E sì, perché se il Pil continua a calare, non basterà neppure che i tassi d’interesse sui Btp italiani scendano grazie alla politica monetaria europea e al ritrovato “appetito per il rischio” degli investitori.

Anche ammesso che lo spread Btp-Bund si azzerasse o quasi, tornando ad esempio a oscillare tra lo 0,25% e lo 0,50% come prima della crisi del 2008 e non restasse sul 2,35%-2,36% attuale, il nostro debito pubblico non costerebbe comunque meno del 2%, sia pure contro il 4,75% medio attuale. Ora: se abbiamo già a fine settembre il debito delle amministrazioni pubbliche era in Italia pari a 2.068,565 miliardi di euro, in crescita di 80,187 miliardi rispetto a fine 2012 (anno in cui è aumentato, nonostante tutto, di 81,626 miliardi) e rappresentava il 132% abbondante del Pil 2012 (1.565,916 miliardi di euro), cosa accadrà se come probabile il Pil 2013 scenderà a 1537 miliardi di euro o meno (ossia l’1,8% in meno del 2012)? E se la ripresa non si manifesterà come auspicato già da quest’ultimo trimestre? Fate due conti: a fine anno il debito/Pil salirà ad almeno il 134,5%-134,6%, l’anno prossimo se il Pil restasse vicino ai livelli depressi di questi ultimi dodici mesi e anche i tassi “miracolosamente” calassero attorno al 2% salirebbe attorno al 137%.

Chi ancora crede che sia possibile “centrare” l’obiettivo di un debito/Pil ben al di sotto del 100%, forse persino del 90%, entro il 2020 (come Confindustria, almeno sino a qualche mese fa) a colpi di avanzi primari che sinora si sono ottenuti praticamente solo tramite maggiori imposte è servito, ma anche farlo attraverso significativi tagli alla spesa a questo punto non farà più molta differenza in assenza di crescita. Poi per carità, la favoletta delle privatizzazioni può galvanizzare i mercati per qualche tempo e i proclami indurre a qualche miglioramento degli indici di fiducia. Che questo si traduca in una ripresa sostenibile e ci consenta di evitare un default che di questo passo rischia di concretizzarsi (sulle spalle dei contribuenti italiani, in primis) è tutto un altro discorso.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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