Tutti, o quasi, hanno parlato di un “compromesso necessario”, forse cercando di convincersi che non si trattasse di una (inutile) manovrina politicista, portata a termine nell’illusione che qualche piccola concessione fosse sufficiente a far recedere i centristi dal continuare con l’ostruzionismo. Ma la scelta della Commissione Giustizia sul disegno di legge “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” non è nient’altro che una mediazione ipocrita, un segnale di debolezza della maggioranza, l’ennesima conferma della timidezza con la quale il Governo sta affrontando la questione. [Al di là dell’impegno dei promotori, dei relatori e di un gruppo (per la verità piuttosto consistente, stavolta) di parlamentari disposti ad andare fino in fondo]
Ma andiamo con ordine. Dunque, mercoledì 2 settembre la Commissione Giustizia approva un sub-emendamento al testo unificato adottato in tema di unioni civili che intende “premettere” una distinzione chiara fra il matrimonio e le unioni fra coppie omosessuali. Con questa modifica si inserisce una definizione piuttosto singolare per l’unione civile fra persone dello stesso sesso, che ora diventano “formazioni sociali specifiche”. Il subemendamento approvato con il voto contrario di FI e l'astensione di NCD (dopo una lunga discussione sulla formulazione) recita infatti: "All'emendamento 1.10000 testo 2, sostituire l'articolo 01, con il seguente: «Art. 01. – (Finalità). – 1. Le disposizioni del presente Titolo istituiscono l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale»". La scelta è quella di "agganciare" il provvedimento all'articolo 2 della Costituzione (che tutela i “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”), eliminando ogni possibile riferimento all'articolo 29, quello che disciplina il matrimonio.
Perché questa scelta, che peraltro porta la firma dei parlamentari del Partito Democratico? La versione ufficiale la dà Scalfarotto: “La legge in discussione al Senato fino a ieri conteneva un comma che definiva le unioni civili come “istituto giuridico originario”, per dire che non andava confuso con il matrimonio ex art. 29, che è precisamente ciò che ha dettato la Corte. In Commissione si è semplicemente deciso che la formulazione “istituto giuridico originario” fosse meno fedele alla sentenza 138/2010 di “formazione sociale specifica” che è una citazione diretta delle parole dell’articolo 2 della Costituzione”.
Una mossa che serve a distinguere l’unione fra persone dello stesso sesso dal matrimonio (come vuole la Corte?), ma non garantisce affatto una rapida approvazione del ddl, come testimoniato dalle prime dichiarazioni di esponenti centristi e dall'astensione di Giovanardi. Il quale, oltre alle pratiche ostruzionistiche, ha elaborato la strategia di NCD di "complicare" i riferimenti al codice civile nel ddl Cirinnà.
A spiegare bene la questione dei riferimenti al codice civile sono Claudio Capocchi e Angelo Schillaci su Gli Stati Generali:
Dal punto di vista tecnico-giuridico, l’ipotesi di intervenire sul testo attraverso l’eliminazione dei rinvii puntuali al codice civile – e, più in generale, la stessa definizione dell’unione civile quale formazione sociale specifica, ai sensi dell’art. 2 Cost. approvata il 2 settembre – potrebbe mettere a rischio il già fragile equilibrio interno al disegno di legge, che si regge – è bene precisarlo – proprio su un sistema di rinvii alla disciplina codicistica relativa al matrimonio. Infatti, ad eccezione dell’art. 5 – che modifica la legge n. 184/83 sulle adozioni, consentendo l’adozione del figlio del coniuge anche alle parti di una unione civile – e all’art. 7, che prevede una delega al Governo per l’armonizzazione del vigente ordinamento dello stato civile (e, più in generale, del diritto di famiglia) al nuovo istituto dell’unione civile, tutte le altre disposizioni del ddl si incentrano su rinvii al codice civile.
È questo il punto su cui si gioca una partita importante, forse decisiva. Se si eliminassero i rinvii al codice civile (che appunto inserirebbero “l’unione civile in un sistema di relazioni giuridiche consolidato da decenni di interpretazione”) e si procedesse a scrivere un “nuovo” sistema di diritti e doveri, una nuova disciplina, si aprirebbe la strada al tradizionale balletto delle interpretazioni, con ricorsi formali, cavilli eccetera. Si tratterebbe, nella sostanza, di depotenziare l’intero provvedimento.
Perché accettare questa serie di mediazioni al ribasso, allora? Cristiana Alicata, sempre del PD, prova a convincere militanti e attivisti delusi:
Ma è quel "subito" che non convince affatto. Innanzitutto perché restano ancora centinaia di emendamenti (e sub – emendamenti) da votare e dunque la politica dell'appeasement non ha affatto convinto Giovanardi e soci. Lo ha spiegato bene Sacconi, facendo capire come il problema non sia solo terminologico: "La definizione delle unioni civili come ‘specifica formazione sociale’ è un disperato espediente causidico per distinguerle dal matrimonio: ma se un animale abbaia come un cane, ragionevolmente è un cane. E la descrizione di questa ‘formazione sociale’ è quella del matrimonio”.
Poi perché il rischio è quello di cedere anche su altri punti qualificanti del provvedimento, come la step child adoption, ovvero la possibilità di adottare il figlio biologico o adottivo del proprio partner. Certo, c'è l'impegno "assoluto" dei democratici a non rinuciarvi, ma c'è molto da dubitare sulla capacità di tenere il punto, come testimoniato dai rinvii e dalle promesse mancate degli ultimi mesi (la verità è che se il Governo volesse sul serio portare a casa il provvedimento ci vorrebbero due settimane…). E infatti c'è già una proposta di "affido", sempre del PD, che rappresenta l'ennesimo compromesso…
Intanto, per capirci, la situazione è sempre questa:
Nel Vecchio Continente (la fonte è un dossier del Servizio Studi del Senato) ci sono alcuni stati che riconoscono il matrimonio fra persone dello stesso sesso: Olanda, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia, Danimarca, Portogallo, Gran Bretagna, Finlandia e Francia. Altri Stati, come la Germania, hanno legislazioni specifiche che permettono di “condividere diritti e doveri”. Nel campo "zero diritti" siamo in buona compagnia: oltre all’Italia a non riconoscere le unioni registrate fra persone dello stesso sesso sono Bulgaria, Cipro, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia.
Renzi, comunque, anche alla Festa de L'Unità ha ribadito che il Paese avrà una legge sulle unioni civili entro l'anno. Capire quale legge, sembra non essere più così importante.