Dopo che Maria Carmela Lanzetta ha fatto finalmente parlare di sé, dimettendosi da ministro per gli Affari Regionali per tornare a fare la farmacista (vicenda complessa, per carità), hanno ripreso vigore le voci che vogliono come imminente la costituzione di un ministero per il Mezzogiorno. L’idea potrebbe essere annunciata da Matteo Renzi nelle prossime settimane durante il suo tour “di ascolto” e porterebbe alla creazione di uno specifico ministero per il Sud.
Nelle intenzioni del Governo si tratterebbe di un modo per “rimettere il Mezzogiorno al centro delle politiche di sviluppo” e di un segnale chiaro dell’attenzione verso le aree in cui sono stati più forti i contraccolpi della crisi economica. Del resto, i dati sul Mezzogiorno sono inquietanti: il tasso di disoccupazione (dai 15 anni in su) è intorno al 20% (il 19,6% a dicembre), quello relativo ai giovani è al 43,4% (ma ha sfiorato addirittura il 50% nel primo trimestre 2014), il tasso di abbandono scolastico è ancora oltre il 20%, la percentuale di emigranti cresce a ritmo costante, il Pil procapite è ai livelli del 2005 (sui 16.500 euro), i consumi sono crollati di 12 punti percentuali in 10 anni, dall’avvio della crisi la produzione industriale è scesa del 13,3%. Insomma, sono i numeri a raccontare come la crisi abbia approfondito il solco fra le diverse aree del Paese e come proprio nel Mezzogiorno si manifestino concretamente i rischi di un tracollo sconomico, demografico e sociale.
Serve una strategia di sviluppo nazionale centrata sul Mezzogiorno, su questo siamo tutti d’accordo (o quasi). Ma la scelta della politica, per anni, anzi decenni, è stata quella della logica emergenziale, non della risposta “sistemica”. Con fondi a pioggia che hanno arricchito speculatori, politici ed affaristi. Con carrozzoni fatiscenti ed inutili che hanno alimentato clientele e notabilati, generando intricati rapporti fra gruppi di potere, politica e associazioni criminali. Con commissariamenti, leggi speciali, provvedimenti ad hoc che hanno lasciato il deserto e sono serviti a gonfiare le tasche dei soliti noti. È la stessa logica che ha prodotto corruzione, speculazione, malaffare.
L’esempio “standard” è quello della Cassa del Mezzogiorno (peraltro “idea” nel solco delle esperienze statunitensi e certamente non campata in aria), nata nel 1950, “perché l’annosa questione meridionale trovi modo di avviarsi verso una soluzione definitiva”, secondo le parole di De Gasperi, chiusa nel 1984 (ma “operativa” sotto altro nome fino al ’92). Di fronte alla necessità “emergenziale” di intervenire in modo strutturale su aree arretrate ed impoverite si sceglieva probabilmente lo strumento giusto (vi consigliamo di leggere qui un’analisi ampia ed approfondita) ma mettendolo nelle mani della politica e di una classe dirigente che, negli anni, mostrerà tutta la propria inadeguatezza ed inaffidabilità.
Ma si potrebbe citare anche la gestione del post terremoto in Irpinia (quella dei commissariamenti durati 34 anni, dei fondi arrivati 25 anni dopo il sisma e via discorrendo), per spiegare meglio il concetto. E per ridurlo ad una semplice considerazione: questo Paese, il Mezzogiorno in particolare, specula sulle emergenze, vivacchia sulla straordinarietà, crede che “sprecare” i fondi sia non spenderli (invece che spenderli male).
E dunque? Ecco, se la risposta ad una domanda sacrosanta deve essere l’ennesimo ente ad hoc, l’ennesimo carrozzone dispensa monete e a disposizione della politica, la risposta è no, grazie. Abbiamo già dato, o meglio, abbiamo già avuto. E abbiamo già dato alla classe dirigente meridionale l’opportunità di fallire.