Un anno senza Gabriel García Márquez
Le sue pagine si aprivano, in un certo senso, sulla dicibilità delle cose. Potrà sembrare altisonante e però se dobbiamo commentare un anno dalla scomparsa di Márquez, diremo che quel che è andato perso -ben prima che lui morisse, ma dopo di lui in un senso letterario, quando cioè il “realismo” non è più stato “magico” ma solo dura reazione al post-moderno- è proprio questo sguardo vergine, la magica grazia dello straniamento che abita solo in alcuni luoghi di quella vasta mappa geografica che chiamiamo letteratura.
La magica capacità di far risplendere gli oggetti prima ancora che sia dato loro un nome: esattamente come quel che si dice nel famoso incipit, nella sua scrittura “il mondo ci appariva così recente che le cose bisognava indicarle col dito”, bisognava prima di tutto saperle vedere come il territorio vergine che in realtà già erano.
Scrive il poeta Derek Walcott:
Io cerco, /al modo che il clima cerca il suo stile, di scrivere /Versi asciutti come sabbia, chiari come luce solare,/Freddi come l'onda increspata, quotidiani /Come un bicchiere d'acqua isolana
Questi versi si potrebbero adattare benissimo a Gabriel García Márquez, che ci ha fatto risvegliare in chiare mattine d’estate e ci ha mostrato uno sguardo che, prima di lui, noi avevamo dimenticato potesse esistere, e che dopo di lui siamo stati incapaci di riprodurre.
Sì, perché questa capacità di scrivere non è di questo mondo, non è del nostro mondo: abita proprio le primavere lacustri tropicali, i metafisici e tristi palmeti, verdi periferie dell’economia e della tecnica, ovvero luoghi geografici sottratti a quell’irrigidirsi della percezione che comunemente noi chiamiamo conoscenza razionale, dei malinconici luoghi dell’America del sud lasciati risplendere dei loro colori ed emarginati dai nervosi circuiti di esperienza convulsa delle nostre metropoli coi loro vari Bloom e Baudelaire.
Cent’anni di solitudine, ma anche L’amore ai tempi del colera, Dell’amore e altri demoni, Racconto di un naufrago, sono tutti libri in cui bene o male la bellezza della vita coabita e convive pacificamente con la morte, senza troppo fracasso; sono tutti romanzi in cui gli spettri degli zingari così come dei nostri antenati convivono con noi a testimoniare per l’appunto che l’esperienza, nel suo non essere schiava della civiltà, ha il suo proprio tempo, una sua durata, che non ha senso affaticarsi a pensare o definire.
La contemporaneità di passato e presente è, nella scrittura di Márquez, per l’appunto ignorare la miopia di ciò che noi occidentali chiamiamo progresso, è un dar voce a una visione della vita superata di cui in un lampo scopriamo avere disperatamente bisogno.
Si è parlato giustamente, da vari anni a questa parte, di un detour della letteratura verso il realismo, e tuttavia non si può ignorare troppo facilmente che i romanzi di Márquez arrivavano nelle nostre librerie dagli anni Sessanta in poi come una meravigliosa scoperta, come una breccia, un foro o un apertura verso una dimensione di senso, una riorganizzazione della vita incredibile per noi occidentali i quali, al contrario, abbiamo praticamente catalogato tutta la storia della letteratura con un troppo comodo sistema di reazione a catena -il modernismo in reazione al romanticismo, il post-modernismo in reazione all’avanguardia, il nuovo realismo in razione a tutti e due- e che quindi non ci sembrava concepibile.
Insomma Márquez ci ha spiegato meglio di tutti che la magia delle cose stesse, il loro partito preso, per dirla con il famoso titolo di Ponge, è molto più semplice, molto più quieta di qualsiasi sperimentalismo coatto, e che nessuno scontro con la durezza degli oggetti, così come nessun rigoroso realismo critico può essere un alibi al fatto che, in letteratura, prima o poi ci troviamo a dover necessariamente saper accendere le cose di quella William Blake chiamava Innocence. Solo che nel mondo di Màrquez, al contrario di Blake, non esiste la contrapposizione -frutto, purtroppo quello sì concreto, del nostro pensarci ‘moderni' e quindi per ciò stesso chissà perché sempre colpevoli- fra i canti dell'innocenza e quelli dell'esperienza.
La letteratura sudamericana, e lo ricorda anche la scomparsa del lucido genio di Eduardo Galeano, è stato per noi un incredibile decentramento geo-simbolico verso l’Innocence di cui, forse è triste dirlo, anche in ambito letterario e non solo coloniale siamo stati parassiti. Questa sorta di serbatoio di innocenza, che è stata per noi la letteratura dell’America Latina, ha visto in Màrquez il più audace dei divulgatori, un po’ come un esploratore alla rovescia che, più di tutti gli altri, si addentri in una giungla di cemento e arrivi precisamente nell'istante in cui la civiltà che sta conquistando con la sua prosa è satura, sta cercando di ribellarsi perversamente alle sue stesse contraddizioni: è il momento profondamente convulso del Sessantotto, quando uscì Cent’anni di solitudine, per il quale i sogni sudamericani di Márquez furono il più distensivo dei miraggi catartici.
E allora per ricordare Gabriel García Márquez ad un anno della sua scomparsa forse la cosa migliore è non fingere, illudendoci che il compito, anche della nostra letteratura, non sia ricercare questa innocenza nell’esperienza del mondo, a prescindere dalle mode, a prescindere da ogni consapevolezza sociologica, estetica o culturale. Per cercare da occidentali in quest'arte, per così dire, ‘la nostra via per lo sviluppo', se ci si passa l'amara battuta. E non trovarci di nuovo a dipendere da un immaginario geografico altro; per non ritrovarci, non a un anno ma veramente fra cent'anni dalla sua scomparsa, a dovere ancora sognare quelle pietre lisce come uova preistoriche, quelle acque diafane, quelle case di fango in una nuova remota Macondo tutta avvolta da palme.