Se avete qualche amico greco conoscerete il detto “una faza, una raza” che mi è venuto in mente più volte nel corso della giornata seguendo l’evolversi della prima giornata del vertice del G20 che si sta tenendo a Cannes, dove la Grecia recita una parte di attore protagonista in un ruolo drammatico, quello del possibile killer dell’euro, con l’Italia appena fuori dal cono di luce dei riflettori nel ruolo di spalla che presenta fin troppe similitudini e che invece farebbe bene a cercare di allontanare quanto più rapidamente possibile i sospetti di volersi comportare in modo simile a quello del disinvolto (ma non troppo) governo ateniese.
Le similitudini tra Grecia e Italia mi paiono evidenti: ad Atene (come a Roma) il premier è ormai alle strette e ha perso la fiducia di larga parte dell’elettorato; è ormai vicino alla rottura col suo ministro delle Finanze; deve sopportare una crescente fronda interna al suo stesso partito e in generale alla maggioranza di governo; rischia di cadere al prossimo voto di fiducia (per Atene sarà quello di domani sera) per andare a elezioni anticipate o forse lasciar spazio ad un governo tecnico che approvi le misure concordate con Ue, Bce e Fmi senza le quali gli otto miliardi di euro della tranche di aiuti prevista in questi giorni resteranno bloccati (con la spiacevole conseguenza di provocare entro una quarantina di giorni il default della repubblica ellenica).
Ma oltre a queste similitudini “di faccia”, ce ne sono altre più sottili ma non meno preoccupanti, di cui si sono accorti da tempo gli analisti e che Jim Reid, strategist della sede londinese di Deutsche Bank AG, ha parlato in una nota odierna: come già accaduto per i titoli di stato greci (e prima ancora irlandesi e portoghesi) la Bce sarebbe rimasto di fatto l’ultimo acquirente di titoli di stato italiani realmente attivo sul mercato. Il campanello d’allarme è di quelli da non prendere sotto gamba: quando come in queste settimane nei confronti dell’Italia viene meno la fiducia degli investitori, i compratori dei suoi titoli di stato si diradano sino a svanire del tutto, tanto sul mercato primario quanto su quello secondario.
Le banche, in sostanza, svalutano o vendono i titoli fino a quel momento detenuti in portafoglio (oggi il gruppo olandese ING ha annunciato di aver abbattuto del 60%, ossia di 467 milioni di euro, il valore dei titoli greci in portafoglio, ovvero di aver svalutato complessivamente nel trimestre luglio-settembre i titoli di debito portoghesi, irlandesi, italiani, greci e spagnoli per 4,8 miliardi di euro e di aver ridotto di altri 600 milioni il loro valore nel corso di ottobre), anche perché sono ormai considerati asset “risk weighted”, ossia il cui valore andrebbe ponderato per il rischio nel momento in cui si calcolano gli indici patrimoniali, quelli stessi che l’European banking authority vuole rialzare entro fine anno con una serie di ricapitalizzazioni basandosi proprio sui dati di bilancio al 30 settembre.
Dal canto suo la Bce, che per statuto non può intervenire sul mercato primario (ossia quando nuovi titoli vengono emessi tramite asta) interviene a sostegno dei paesi in difficoltà (Spagna e Italia in questo caso), lanciando contemporaneamente moniti sulla necessità di ricorrere a immediate misure di austerity, che peraltro essendo pro-cicliche finiscono col fare avvitare, nel breve, la congiuntura economica. L’economia rallenta (e infatti il presidente della Bce, Mario Draghi, ha citato la possibilità di un rallentamento economico “per tutto il secondo semestre dell’anno e oltre” come motivazione per l’odierno taglio dei tassi ufficiali sull’euro di un quarto di punto, dall’1,5% all’1,25%), le entrate fiscali rallentano, le spese continuano a correre perché difficilmente comprimibili nell’immediato e si aprono nuovi buchi di bilancio, che scoraggiano ulteriormente i potenziali acquirenti che dunque accettano, nel caso, di sottoscrivere nuovi titoli solo a fronte di un rialzo dei rendimenti.
A questo punto il mercato dei titoli di stato è completamente disfunzionale, ossia non reagisce più agli stimoli da parte delle autorità monetarie, per le banche commerciali è sempre più difficile effettuare le consuete operazioni di rifinanziamento, la Bce rimane l’unica fonte a cui attingere (e infatti il mese scorso sono state nuovamente reintrodotte aste di liquidità a un anno con le quali la Bce ha soddisfatto tutte le richieste pervenute), le banche continuano a non fidarsi tra loro e a tenere il più possibile la propria liquidità parcheggiata al sicuro (in Bund, T-bond o anche presso la stessa Bce), lo stimolo monetario non raggiunge più neppure l’economia reale che così va ulteriormente in affanno.
La crisi rischia di avvitarsi ulteriormente su se stessa e tutti i partecipanti al gioco, ormai “infernale” non sanno più che fare se non guardarsi in cagnesco l’un l’altro accusandosi a vicenda di essere la causa ultima (o prima, a seconda dei punti di vista) di quanto sta accadendo. Il finale non è necessariamente scritto e non è necessariamente negativo, l’Irlanda ad esempio sta uscendo fuori dalla propria crisi senza aver bisogno di ulteriori aiuti, il Portogallo potrebbe imitarla se otterrà una leggera dilazione sui tempi previsti per le varie manovre e per il rimborso dei prestiti. La stessa Grecia dopo aver “bluffato” scommettendo tutto sull’azzardo morale di non poter essere lasciata fallire perché l’euro sarebbe stato a rischio (un bluff rischioso visto che oggi il presidente dell’Eurogruppo, il premier del Lussemburgo Jean-Claude Junker, ha ricordato come sia auspicabile che Atene resti nell’euro, “ma non a tutti i costi”), potrebbe farcela anche se il percorso nel caso di Atene sembra molto più accidentato che per Dublino o Lisbona.
A quel punto resterebbe da capire se Roma vorrà e saprà salvarsi o se quindici anni e più di continue promesse e mancati interventi, veti incrociati da parte delle lobbies “dominanti” e totale assenza di una qualsiasi politica industriale hanno messo definitivamente in crisi l’economia del Belpaese e la sua capacità di reagire. Le soluzioni e i soldi per attuarle ci sarebbero, quel che serve sarebbero facce e idee nuove e credibili, o per lo meno presentabili ai mercati così da ottenerne la fiducia e interrompere l’avvitarsi della crisi. Consentendo al paese di tornare a crescere e rendendo il suo debito sostenibile e nel tempo “alleggeribile” (vari studiosi concordano nel giudicare sostenibile un debito/Pil attorno al 90%, mentre attualmente siamo oltre il 119%) senza fare troppa macelleria sociale.