In questi giorni è tornato a riaffacciarsi prepotentemente nel dibattito pubblico il delicato tema del cosiddetto “testamento biologico”. In effetti proprio nei giorni scorsi si è tenuta a Roma una partecipata manifestazione, fortemente voluta da Beppino Englaro, in difesa del testamento biologico, o nella accezione comune biotestamento. All’appuntamento hanno preso parte numerose personalità del mondo della medicina e della cultura ed in particolare lo scrittore napoletano Roberto Saviano. Nel suo intervento Saviano si è scagliato violentemente contro il ddl Calabrò, che interviene in maniera sostanziale nella regolamentazione delle pratiche di cura in relazione alle disposizioni anticipate di trattamento, definendo il provvedimento "una palese limitazione della libertà di scelta", accusando il governo di seguire pedissequamente le indicazioni del Vaticano e di porre le premesse per una “rivisitazione”, in chiave contemporanea, dello Stato etico di hegeliana memoria.
In sostanza, secondo il ragionamento di Saviano, se la Camera dei Deputati (la discussione del ddl dovrebbe essere prevista per i primi giorni di marzo) dovesse approvare il testo, si sancirebbe, di fatto, l’impossibilità di pronunciarsi in maniera autonoma sulle pratiche di cura che in futuro potrebbero interessare ognuno di noi; ad ascoltare Saviano, dunque, verrebbe liquidata l’idea stessa di testamento biologico. Ma, in concreto, cosa s’intende per testamento biologico? Si potrebbe definire il testamento biologico, con buona approssimazione, come l’insieme di direttive anticipate che un individuo può formulare relativamente al trattamento da riservare alla sua persona in situazioni in cui non è più possibile esprimere la propria volontà (malattie degenerative allo stato terminale, coma etc.). Il testamento biologico dovrebbe dare indicazioni in merito ad espianti, esprimere decisioni circa l’accettazione o il rifiuto di interventi medici e quanto altro riguardi il trattamento del proprio corpo in situazioni estreme. In ultima analisi potremmo definire il testamento biologico come uno sforzo per dotare la giurisprudenza di uno strumento che possa segnare la linea di demarcazione tesa a salvaguardare la libertà dell’individuo di disporre della propria vita, quindi anche del proprio corpo e della propria salute, dai condizionamenti che ad essa possono venire dal progresso della medicina, dalla tecnicalizzazione e dalla burocratizzazione del rapporto tra il terapeuta ed il paziente e da profondi vuoti normativi in materia.
A guardare il testo del ddl Calabrò sembra che le intenzioni del Governo di colmare tale vuoto normativo, vadano esattamente nella direzione opposta a quelle contenute nell’idea di testamento biologico. Vediamo perché. Il principio che ispira il testo è quello dell’ “indisponibilità della vita”, dal suo concepimento fino alla morte. Inoltre, ed è questo il punto che genera maggiori contrasti, non possono essere oggetto di deliberazione anticipata pratiche mediche come l’alimentazione forzata e l’idratazione artificiale che, nell’ottica del legislatore, vengono definitive come “atti eticamente e deontologicamente dovuti in quanto forme di sostegno vitale, necessari e fisiologicamente indirizzati ad alleviare le sofferenze del soggetto in stato terminale e la cui sospensione configurerebbero un’ipotesi di eutanasia passiva”. Risulta evidente che un’impostazione di questo tipo se non cancella del tutto l’ipotesi del testamento biologico quantomeno la riduce pesantemente, imponendo dei vincoli precisi proprio sulle questioni più delicate, servendosi di un concetto notevolmente ampliato di eutanasia. E’ questa la cornice entro la quale si sta svolgendo l’attuale dibattito sul testamento biologico.
Le domande cui siamo chiamati a rispondere sono stringenti: pratiche mediche come l’alimentazione forzata e l’idratazione artificiale sono da considerarsi, in taluni casi, come forme di accanimento terapeutico? Al contrario: la sospensione di queste pratiche è da considerarsi come una sorta di eutanasia passiva? Tali quesiti rimandano ad una questione più generale: si ha diritto di morire quando la vita, segnata da una malattia incurabile, diviene un peso insopportabile, riducendo il soggetto ad uno stato di incoscienza per cui si sopravvive in condizioni vegetative permanenti? La volontà di morire può essere accettata come una disposizione moralmente accettabile? Se si parte dall’assunto, religiosamente orientato, della sacralità della vita e della sua completa indisponibilità, in quanto la vita è considerata un dono del quale non dispone se non Dio stesso, le risposte sono poco meno che scontate. Ogni forma di cessazione medicamente controllata dell’esistenza viene fatta rientrare in una dimensione assimilabile all’omicidio. Ricordiamo tutti le durissime dichiarazioni della Santa Sede in relazione al caso Englaro, quando alla povera Eluana vennero sospese l’alimentazione e l’idratazione dopo una lunga querelle giudiziaria. Per i vescovi, e per tanta parte del mondo politico italiano, si trattò di omicidio. Punto e basta. Non era importante che Eluana avesse vissuto gli ultimi 17 anni della sua vita in stato vegetativo, relegata in un letto e costretta su di un fianco per evitare soffocamenti, data l’incapacità di poter deglutire.
Ha senso parlare di sacralità della vita quando la vita stessa non è più riconoscibile come tale? Siamo sicuri che lo staff medico che decise di sospendere l’alimentazione ad Eluana si sia macchiato di omicidio? O forse andrebbe considerato che alla vita umana deve essere garantita una condizione di benessere valutata come tale da colui che chiede o che ha chiesto di morire? In questo caso non saremmo di fronte ad un profondo atto di pietas da parte di quei medici? Per quanto paradossale possa sembrare, in talune situazioni, accogliere la domanda di morte significa accogliere la domanda di vita, accogliere il diritto di morire coscientemente la propria morte. Inoltre il medico che accoglie tale richiesta lo fa in seguito ad un lungo processo di cura e di relazione umana.
La complessità e la delicatezza del tema non possono dar luogo a risposte definitive, siamo posti di fronte alle convinzioni ultime che presiedono ad un soggettivo ordinamento del mondo rispetto alle quali non è certamente possibile stilare un criterio di valore. Resta però un punto. Si possono avere le idee più disparate sul mondo, sulla religione e sulla morte, ma ad ognuno dovrebbe essere lasciata aperta, in via di principio, la possibilità di scegliere cosa fare del proprio corpo e della propria vita. Limitare questa scelta significa minare le basi di un ordinamento liberale e la storia ci ha mostrato con durezza le conseguenze catastrofiche di una “morale di Stato”.
A cura di Rocco Corvaglia