Fast-fashion e lavoro minorile: se i vestiti costano poco, il prezzo lo pagano i bambini
E se ti dicessimo che la t-shirt che indossi arriva dall'altra parte del mondo ed è stata confezionata a mano da un bambino o una bambina? È una realtà sconcertante, eppure quando si tratta di fast-fashion si fa ancora finta di niente. A Dhaka, in Bangladesh, ogni giorno vengono cuciti, colorati e prodotti tonnellate di vestiti destinati all'Occidente, un'industria fiorente che si basa tuttavia sullo sfruttamento: condizioni di lavoro estreme, minori costretti ad abbandonare gli studi, ma anche inquinamento ambientale e un impatto negativo che si ripercuote pure sulle nostre economie.
Come si è arrivati a tutto questo?
Era il 1989 quando il New York Times coniò la parola “fast-fashion” (letteralmente moda veloce), stimando in 15 giorni il tempo medio affinché un capo di vestiario uscisse dalla mente di uno stilista per arrivare agli scaffali dei negozi. Da allora il settore è diventato ancora più insostenibile, passando da moda veloce a “istantanea”. I numeri sui cartellini si sono via via abbassati, garantendo a tutti il “lusso” di vestirsi secondo le ultime tendenze, ma a che prezzo? I ritmi di lavoro richiesti negli ultimi decenni sono infatti diventati ancora più incessanti, e per mantenere i costi di produzione bassi le aziende hanno delegato la produzione a fabbriche (spesso illegali) di Paesi dove né i lavoratori, né le norme di sicurezza vengono rispettati.
L'infanzia negata
Secondo i report dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) in tutto il mondo sono 160 milioni i bambini costretti al lavoro minorile, 79 milioni dei quali in condizioni pericolose: sono impiegati soprattutto in campi e miniere, ma molti di loro lavorano nelle fabbriche della fast-fashion. Solo in Bangladesh sono in migliaia relegati già dai 5 anni d'età dietro le macchine da cucire, o a piedi scalzi, a lavare i tessuti in liquidi inquinanti e nocivi. Il contesto di povertà in cui le aziende di vestiario operano esacerba la condizione di disagio che vivono i bambini e le loro famiglie.
Le storie
Kushi, una bambina di 12 anni, racconta di aver lasciato la quarta elementare per aiutare economicamente la sua famiglia numerosa, ma appena arrivata in una fabbrica di vestiti si è scontrata con una realtà fatta di violenze fisiche e psicologiche. Jui, sua coetanea, ha una storia simile. Dopo che la sorella ha deciso di sposarsi la famiglia ha accumulato dei debiti, così insieme alla madre è stata costretta a cercare lavoro in una fabbrica di abbigliamento. Lavora tutti i giorni ai telai, andando a dormire spesso a notte fonda. Le bambine, esauste dai ritmi richiesti dai capo-reparto, vanno incontro a frequenti malattie: entrambe hanno rinunciato a una vita normale fatta di amici e divertimento, oltre che ai loro sogni.
L’impegno di ActionAid
Prendere coscienza del problema è il primo passo, ma non basta, il fenomeno continua ad esistere soprattutto per lo stile di vita occidentale. Da cittadini coscienziosi possiamo modificare la nostra visione della moda e dare un sostegno concreto a chi in prima linea si occupa di garantire un futuro migliore ai minori sfruttati tramite l'adozione a distanza. ActionAid con il progetto Happy Home offre a bambine e ragazze di strada un luogo sicuro dove vivere, crescere e studiare, e nei Centri per lo sviluppo dell'infanzia i più piccoli possono ricevere tutto il supporto che necessitano, diventando anche un punto nevralgico di informazione per tutta la comunità. Attualmente i bambini sostenuti a distanza in Bangladesh sono 1500, bambini che possono focalizzarsi sullo studio e il gioco, lasciando da parte il lavoro.