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Valentina Petrillo, prima atleta transgender alle Paralimpiadi: “Faccio ciò che sognavo, corro da donna”

Valentina Petrillo nel 2020 è entrata nella storia dei campionati italiani paralimpici di atletica leggera come prima donna transgender a gareggiare nella categoria femminile.
A cura di Giusy Dente
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Valentina Petrillo comincia a sognare l'atletica da bambina: all'età di 7 anni resta folgorata dalla vittoria di Pietro Mennea alle Olimpiadi e inizia a immaginarsi con la maglia azzurra. Ma nel proiettarsi all'interno della gara sportiva più prestigiosa di tutte, lo fa pensandosi con un corpo diverso, con un corpo femminile. Benché abbia dentro di sé la consapevolezza di essere in un corpo che non sente suo, Valentina prosegue la sua vita cercando il più possibile di adeguarsi alle aspettative altrui, allo standard, senza "tradire" il genere assegnatole alla nascita. Continua con lo sport anche quando le viene diagnosticata la sindrome di Stargardt, malattia che la rende ipovedente: vince 11 titoli nazionali nella categoria maschile di atletica leggera paralimpica. Parallelamente si sposa, nasce un figlio. Ma il cumulo di bugie, raccontate prima di tutto a se stessa, si fa sempre più pesante. Nel 2019 quindi fa coming out e intraprende un percorso di affermazione di genere. Ai campionati italiani paralimpici di atletica leggera dell'11 settembre 2020 è la prima donna transgender a gareggiare nella categoria femminile. Ai campionati europei paralimpici 2021 Valentina Petrillo si classifica al quinto posto, nel 2023 partecipa ai mondiali paralimpici di Parigi e porta a casa due medaglie di bronzo. Ora è a un passo dalle Paralimpiadi di Parigi, dove è stata convocata; inoltre è tra i protagonisti di We All Play di Rakuten TV, un documentario sull'inclusione della comunità LGBTQIA+ nello sport. A Fanpage.it ha esposto la speranza che si parli di lei in relazione allo sport e ai risultati sul campo, piuttosto che per la sua storia personale. Parallelamente, è consapevole di aver aperto la strada a un cambiamento: "Il mio messaggio è questo: io devo dare una speranza, voglio diventare il simbolo di un di un mondo che si sta ribellando".

Il coming out di Valentina Petrillo

Il coming out di Valentina Petrillo e l'inizio del percorso di transizione sono arrivati per certi versi tardi, anche se questa parola non ha senso quando in ballo c'è una decisione così intima e personale, che inevitabilmente ha tempistiche diverse da persona a persona. "Da piccola sapevo di avere dentro una parte che non si poteva esprimere – ha raccontato a Fanpage.it – Avevo paura del giudizio della società, ho avuto un esempio negativo in famiglia, per il comportamento che i miei zii hanno avuto verso mia cugina, l'hanno cacciata di casa quando ha fatto coming out. Anche per questo il mio coming out è avvenuto in tarda età, dopo mille pensieri. Ma a un certo punto non ce l'ho fatta più. Non riuscivo più a guardarmi allo specchio, a guardare il mio corpo, a entrare in spazi maschili. Per me era una violenza, era insostenibile. Già prima di fare il coming out nel 2018 non andavo più nello spogliatoio oppure faceva salti mortali per cambiarmi, non volevo che mi vedessero nuda: questo è stato un grosso input per farmi dire basta, per farmi iniziare a vivere come avevo sempre voluto".

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Nella sua decisione, ha avuto un grande impatto il non avere punti di riferimento in cui riconoscersi: "Io non ho avuto la fortuna di avere degli esempi davanti a me a cui potermi ispirare. Io cercavo un modello di trans sportiva, cioè quella che sono io insomma. Se avessi visto Valentina come trans correre, sarebbe stato diverso il mio percorso. Io sono la prima nella storia ad aver partecipato a una competizione femminile in una categoria femminile con un documento ancora al maschile. Io sono stata proprio un prototipo. Questo mi ha dato anche delle problematiche, sono stata tanto esposta mediaticamente e ho dovuto fare una scelta a un certo punto: rendere pubblica o non rendere pubblica la mia vita, la mia storia".

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La discriminazione nel mondo dello sport

Se lo ha fatto, è perché è fermamente convinta che serva un cambiamento nel mondo dello sport: "La mia presenza è un importante momento di riflessione per tutti, può essere d'aiuto anche sul fronte del linguaggio. C'è un modo corretto di parlare con le persone disabili, con le persone del mondo LGBT, con tutte le persone per così dire "diverse". Spesso il linguaggio lascia molto a desiderare, certe convenzioni fanno male alle nostre vite, come ad esempio usare il nome della nostra precedente vita (dead name). C'è discriminazione dal punto di vista linguistico verso le persone trans e disabili". Lei la discriminazione l'ha subita sulla propria pelle, come atleta e come donna: "Tutto quello che avevo costruito come maschio a un certo punto l'ho dovuto perdere e ho dovuto ricostruire la mia vita. Mi è stato detto: ma come fai a essere un buon padre se metti la gonna? Come se il mio ruolo fosse messo in dubbio. Improvvisamente io da essere un uomo normale, un marito, un papà ho perso il mio essere persona stimata, solo per aver fatto coming out. Poi è chiaro: ovviamente la mia persona non è ancora del tutto sdoganata. Ci sono pregiudizi, stereotipi, stigma. C'è anche una vera e propria morbosità nelle domande. Io vorrei vivere normalmente, vorrei fare notizia non perché sono trans, ma perché sono una sportiva brava, perché faccio dei buoni risultati, perché ho raggiunto dei traguardi. Nello sport ci stiamo scontrando contro il mondo più sessista che ci sia. Lo sport italiano, in particolare per l'atletica senza disabilità, è così. Questo mondo non è pronto ad accettare le diversità come la mia. Non è pronto a livello a livello di strutture, a livello di preparazione dei giudici, su come rivolgersi, che pronomi usare. Non sono pronti gli addetti ai lavori e non c'è un regolamento pronto ad accogliere le persone transgender. Per l'atletica paralimpica è un'altra cosa, quel mondo mi ha sempre inclusa, mi ha sempre accettata, al di là dei regolamenti. A me non è stato dato un percorso facilitato, mi sono guadagnata tutto".

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E il percorso è stato davvero tortuoso. Lo è ancora, data l'assenza di linee guida uniche e valide per tutti: "Non ci sono regole ben precise: quando c'è il caso lo si analizza. Quando la Federazione di basket italiano avrà una ragazza trans allora ci si porrà il problema e andranno a capire in base a quello che hanno fatto le altre Federazioni. Storicamente la questione è nata grazie al CIO nel 2015, poi nel 2019 la World Athletics (la Federazione del'Atletica Leggera Internazionale) recepisce parzialmente la normativa del CIO e quindi ci include. Io sono stata la prima a essere inclusa proprio a livello normativo per gareggiare con le donne. Fino al 2023, quando improvvisamente e senza nessuna motivazione hanno deciso di escluderci e quindi alle persone transgender purtroppo è negato il diritto allo sport di tipo agonistico. Tra l'altro nel mio caso specifico io adesso ho anche rettificato proprio i documenti, quindi sono legalmente una donna".

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Il primato di Valentina Petrillo

Valentina Petrillo è stata la prima donna transgender a partecipare ad una competizione femminile paralimpica (di atletica leggera) segnando un primato per le persone trans nello sport in Italia. A Fanpage.it ha spiegato: "La rivoluzione avviene nel 2015 con le linee guida del CIO – Comitato Olimpico internazionale, che dice: dovete includere le persone trans. È stato dimostrato tramite degli studi che con dei valori di testosterone entro i 10 nanomoli (che poi World Athletics ha recepito in 5 nanomoli) le persone transgender sono equiparabili alle performance di una donna. Poi il CIO demanda alle varie federazioni le leggi vere e proprie, dà solo linee guida. Sono parametri che arrivano da risultati scientifici, secondo cui le persone transgender facendo una terapia ormonale sono equiparabili alle donne. Non si può dare per scontato il fatto che un qualsiasi uomo sia più forte di una qualsiasi donna. Io persona transgender non posso essere discriminata solo per il fatto di essere nata uomo, perché sarei più forte di una donna. Questa non è una regola che vale in maniera assoluta: nessuno ha mai dimostrato scientificamente che io abbia un vantaggio. I giamaicani sono mediamente i più veloci del pianeta, ma non è che facciamo una categoria per i giamaicani, quindi lo stesso vale per le persone trans le quali effettivamente in sette anni di presenza nel mondo sportivo non hanno fatto nessun risultato. Questo prova che non è un binomio assoluto essere stata maschio ed essere persona vincente. Laurel Hubbard, neozelandese sollevatrice pesi, a Tokyo è stata la prima atleta transgender a partecipare. Tutti erano convinti vincesse: alla fine non è entrata nemmeno in finale. Nel suo decalogo del 2022, il CIO al punto 5 parlava di principio di non presunzione di vantaggio: non puoi presumere che una persona abbia un vantaggio anche se è nata maschio".

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Valentina Petrillo non corre da sola

Si parla dello sport come il mondo dell'accoglienza, quello dove c'è posto per tutti, un mondo dove crescere, dove potersi migliorare, dove abbracciare valori sani. L'esperienza di Valentina Petrillo, per sua stessa ammissione, non è stata così: "Il mondo dello sport deve porsi delle domande: il binarismo di genere non rappresenta più la società e lo sport non è quell'ambiente inclusivo che ci aspettiamo. Valentina fa notizia quando va a gareggiare, ma non fa notizia perché è brava a correre e credo di esserlo, fa notizia perché è stata un uomo. Ci sono tante trans nel mondo dell'atletica che arrivano coi documenti già rettificati al femminile. La differenza con me è che io ho una storia come uomo: ho vinto 12 titoli italiani come maschio. Ma ho fatto un processo di verità e trasparenza, ho raccontato la mia storia e sinceramente ne sto pagando le conseguenze". La sua forza arriva dalla sua rabbia: "Lo sport deve cambiare, deve includere. L'anno scorso chiesi a un giudice di indicarmi il bagno: mi indicò il bagno degli uomini. C'è una volontà di tenerci fuori".

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Dall'altro lato, però, c'è anche il profondo desiderio di essere d'aiuto a chi verrà dopo di lei: "Non ne vale la pena. Col senno di poi ci penserei altre dieci volte, ma io devo dare una speranza alle persone che vivono nel limbo e hanno paura. Io ce l'ho fatta. Il mio messaggio è questo: io devo dare una speranza, voglio diventare il simbolo di un di un mondo che si sta ribellando. Credo che nel futuro abbiamo bisogno di esempi come il mio, però è veramente difficile. Sono convinta che porterà a qualcosa: basta vedermi a Parigi alle Paralimpiadi". L'emozione è tanta: "Sto andando a fare la cosa più bella, quella che ho sempre sognato nella vita e non ci vado da maschio. Corro con le donne. Cioè, che cosa posso chiedere di più? Le mie Olimpiadi sono diventate Paralimpiadi, ma non fa niente. Viva le diversità, perché ci rendono unici, ognuno di noi è unico a modo suo. Io se non avessi lo sport sarei una persona spacciata nella vita, nella società avrei difficoltà. Questa è la mia rivalsa, è il mio riscatto, ci è voluto tanto per arrivarci. Immaginavo di partecipare alle Olimpiadi, di avere quella maglia azzurra, ma di farlo come donna: questo era impossibile, erano sogni di bambina irrealizzabili". E invece la bambina che guardava con occhi commossi Pietro Mennea, ha realizzato quel sogno.

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