Società e lingua cambiano, Vera Gheno: “Abbiamo due generi grammaticali e infiniti generi umani”
La società odierna urla a gran voce il bisogno di maggiore apertura nei confronti delle diversità, di ciò che non è perfettamente aderente agli stereotipi e ai modelli tradizionali, quelli a cui siamo abituati e che ci fanno sentire sicuri nei nostri confini. Riguarda il modello tradizionale di famiglia, la cosiddetta famiglia naturale. Riguarda i generi, visto si è fatto avanti un concetto più fluido e meno rigido, non polarizzato in maschile e femminile.
I due generi grammaticali che la lingua italiana mette a disposizione non sono più capaci di abbracciare la moltitudine di generi umani, che chiedono di essere riconosciuti. Proprio con la scelta delle parole si può più o meno consapevolmente ferire, discriminare, offendere, escludere. Un linguaggio inclusivo darebbe a tutti la possibilità di sentirsi rappresentati nella loro stessa lingua, da cui invece alcuni si sentono ad oggi esclusi.
Alla linguista Vera Gheno abbiamo chiesto perché è così difficile accettare certi cambiamenti, anche quando diventano un bisogno urgente che potrebbe apportare arricchimento, migliorare molte vite. A Fanpage.it ha spiegato che ci sono radici sociali e culturali profonde, nel nostro modo di pensare e di conseguenza nel nostro modo di parlare e chiamare le cose. Perché lingua e realtà non sono affatto due concetti astratti che nulla hanno a che fare tra loro, bensì si influenzano a vicenda.
Che relazione c'è tra la realtà in cui viviamo e la lingua che usiamo?
Spesso pensiamo a realtà e lingua come due cose contrapposte, polarizziamo. Di fatto lingua e realtà si alimentano o si ostacolano a vicenda. Sono in una relazione circolare in cui la realtà influisce sulla lingua e viceversa, perché il modo in cui narriamo la realtà poi contribuisce a farci vedere le cose in un modo rispetto a un altro. Con la narrazione noi creiamo una specie di intercapedine tra noi e la realtà che poi ci serve come chiave interpretativa.
Le parole che usiamo cosa raccontano di noi?
C'è una cosa molto bella che dice Giorgio Cardona, che è stato un grande sociolinguista, solo che è morto giovane ed è poco conosciuto. Lui dice: le parole che usiamo raccontano ciò che siamo, ciò che vorremmo essere, ciò che pensiamo di essere. Quindi a volte le parole hanno anche un effetto auto migliorativo, le scegliamo anche per sembrare più intelligenti, più colti rispetto a quello che siamo. In ogni caso il punto è che volente o nolente le parole raccontano agli altri il nostro pensiero, il retroterra culturale-sociale nel quale ci muoviamo. Questo succede sempre: quando apriamo bocca ci posizioniamo. Le parole non sono mai neutre.
E non sono immobili…
Se noi esseri umani cambiamo, siamo in perenne evoluzione, se lo è la realtà in cui viviamo, se lo sono i rapporto sociali: come potrebbe la lingua, che funge da intercapedine cognitiva, rimanere immobile verso questo movimento? È abbastanza naturale che cambiamo noi, cambiano le relazioni, cambia il contesto, cambia la società: anche la lingua cambia, a volte sotto la spinta di questi fenomeni e a volte anticipandoli. Ricordiamo che la lingua è anche capace di descrivere cose che non esistono, che non esisteranno mai, che ancora non esistono: penso alla fantascienza. Faccio sempre il test del nerd. Se dico davanti a una platea "motore a curvatura" vedo gente che annuisce sorridente. E io dico: ma vi rendete conto che è una cosa inventata, che non esiste, che troviamo in Star Trek e Star Wars? Il motore che permette di viaggiare nella galassia non esiste, ma linguisticamente esiste già.
L'avversione al cambiamento della lingua è un gesto da "puristi" o è un problema ideologico-culturale?
È una reazione umana, non è una questione di fascismo interiorizzato o grammarnazismo. Noi esseri umani sappiamo che cambiamo di continuo, ma non lo prendiamo come qualcosa di per forza positivo. Il cambiamento richiedesforzo, adattamento, mettersi in discussione. Dopo una certa età si fa fatica. La tradizione del "si è sempre fatto così" è un rifugio. Io che uso una parola che tu non hai mai sentito sto in qualche modo sfidando la tua visione del mondo e sembra che io stia dicendo che la tua non va bene. Invece sto solo dicendo: fino ad ora hai visto le cose da un certo punto di vista, a questo se ne aggiungono altri che devi tenere in considerazione. Però non è una cosa che tutti riescono a digerire in maniera pacifica, lo vedono come un attacco.
Quindi adottare un linguaggio inclusivo può rendere più inclusiva la società?
Non direi "inclusivo". Questa parola presuppone che ci sia chi include e chi viene incluso. Se tu parli con coloro che dovrebbero venire inclusi, tipo le persone LGBTQIA+, le persone neurodivergenti, le persone con disabilità, le persone nere, loro ti diranno: ma perché io devo subire l'inclusione? Più che di inclusione io parlo, seguendo la lezione di Fabrizio Acanfora, di convivenza delle differenze, di linguaggio ampio piuttosto che inclusivo. Il linguaggio ampio nasce da una necessità che evidentemente oggi si sente più di prima: gestire il rapporto tra le diversità, anche a livello linguistico. Cose che andavano bene quando c'era un solo modello di pensiero oggi, che si cerca di variare il punto di vista, non sono altrettante adatte. D'altro canto l'uso di un certo lessico, l'attenzione alla parola, può anche servire per spianare la strada a una società più equa, più consapevole dell'arricchimento che la diversità può portare.
Se ci pensiamo, gli esseri umani hanno bisogno della diversità anche a livello genetico, per l'evoluzione della specie. Dove ci si accoppia fra consanguinei, vengono fuori cose non desiderabili dal punto di vista genetico. Anche nel regno animale, anche le piante hanno bisogno di diversità: continui a fare talee di una stessa pianta e ti stupisci che la figlia vive sempre meno. È perché non hai rinnovato il DNA. Succede a tutti gli esseri viventi del pianeta, senzienti o meno.
Quindi noi abbiamo bisogno della diversità invece ancora oggi è vista come qualcosa da sistemare, non come ricchezza. Invece si possono fare dei piccoli tentativi di andare incontro a un modo diverso di guardare. Sono procedimenti mentali, cambiamenti socioculturali molto profondi, che non accadono da un momento all'altro: hanno bisogno di decenni, forse secoli. La mia generazione non ne vedrà i frutti, ma siamo in corsa, siamo nel mentre e non è detto che ci si arrivi, ma si può provare.
Nell'oralità in che modo si può agire per essere sicuri di adottare un linguaggio inclusivo?
A poche persone e in poche situazioni capiterà di dover gestire il rapporto con tutte le diversità in contemporanea. Però direi che la regola generale è di ascoltare: ho un dubbio su come usare questa parola, su come definire questa cosa, tu che la vivi da dentro cosa mi consigli? Poi c'è un concetto che mi piace molto: la carità interpretativa. È lo stato d'animo di dire: non è detto che l'altro voglia offendermi, voglia attaccarmi, magari semplicemente non ci siamo intesi. È un'apertura al dialogo necessaria, in questo periodo storico.
Invece per quanto riguarda lo scritto: asterisco e schwa sono entrati nell'uso comune? Li vedremo un giorno in documenti ufficiali?
Quelli sono degli usi simbolici: non dobbiamo chiederci se entrano nell'uso comune, dobbiamo chiederci cosa vogliono sottolineare. E vogliono sottolineare che in questo momento la nostra lingua, che prevede solo due generi grammaticali, è in qualche modo sguarnita nel rappresentare la reale complessità di genere che caratterizza il genere umano. Ma è un dito in un occhio dal punto di vista linguistico e tale deve rimanere. Non auspico che un giorno avremo grammatiche con l'asterisco o con lo schwa, ma magari delle grammatiche in cui si illustra e si lascia aperta la questione. Abbiamo due generi grammaticali e infiniti generi umani. C'è qualcuno che si riconosce nelle misure tradizionali e altri che non si sentono a loro agio perché non si sentono rappresentati dalla loro stessa lingua. La porrei in questi termini. Bisogna porre il problema, non risolverlo.
L'aggiunta di lettere alla dicitura LGBT è una forma di inclusività?
Io non compaio in quelle lettere: sono una donna etero cis. Non sono la persona giusta a cui chiederlo. Se una persona sente il bisogno di aggiungere una lettera a quella sigla per sentirsi parte di un tutto, di un gruppo, di un movimento, perché no. Poi c'è il "più" che risolve un sacco di cose. È sempre una rappresentazione aperta.
Perché se voglio offendere qualcuno con le parole, faccio riferimento alla sfera sessuale?
Perché è uno dei grandi tabù della nostra società. Il sesso si fa ma non si dice. Una donna viene offesa perché si suppone che abbia un comportamento sessuale disdicevole. Un uomo si offende o devirilizzandolo (frocio) o rendendo oggetto della discussione i presunti comportamenti sessuali delle sue donne (figlio di puttana, cornuto). Quindi ci sono tre aree tabù: il maschio deve essere maschio, la donna non può avere una vita sessuale soddisfacente perché è nata per la riproduzione e non per il godimento, il problema del maschio poco maschio quindi l'omosessualità come qualcosa di disdicevole.
Quindi nel linguaggio che usiamo c'è un'alta componente culturale?
Il modo in cui offendiamo le persone è altamente rappresentativo di ciò che una società marca come desiderabile o indesiderabile: è sociale e culturale, tantissimo.
L'anonimato sui social fa sentire più forti nell'hate speech?
La cosa che rende più sicuri dell'impunità è lo scarso livello di sensazione che dall'altra parte c'è un essere umano. Si ritiene che chi c'è dall'altra parte sia una sorta di cartonato umano e non si pensa di stare attaccando una persona. Molto spesso basta riconnettersi all'umanità dell'altra persona: in quel caso molti tornano indietro e chiedono anche scusa.
A proposito di Ambra Angiolini: lei nel discorso ha messo da un lato le vocali e dall'altro la retribuzione, come se la declinazione femminile dei mestieri fosse solo questione linguistica. È così?
L'errore di Ambra è pensare in maniera polarizzata: realtà da una parte, lingua dall'altra. Invece sono due livelli intrecciati. Non è indifferente come chiamiamo le persone, nemmeno come le retribuiamo: anche questa è ovviamente una questione importante. Ma non sono due istanze che si danno noia a vicenda, anzi si rinforzano a vicenda. Un po' capisco dove voleva andare a parare Ambra: oggi molte aziende ed enti magari mettono la letterina, ma poi discriminano le donne in altri modi. Le parole devono essere saldate ai fatti e viceversa, non basta agire a livello linguistico perché sennò si fa pink washing, rainbow washing e così via.
La regola dell'ascolto e dell'empatia vale anche in questo caso, con le donne che chiedono di essere chiamate col maschile?
Ogni scelta individuale a livello linguistico ha delle conseguenze a livello globale. Spesso tendiamo a minimizzare, invece ognuno di noi può contribuire. La scelta di molte donne di chiamarsi al maschile è più che linguistica: è legata a una certa visione della realtà e dei rapporti di forza all'interno della società. Quello che mi dispiace è che una donna che decide di farsi cambiare al maschile, più o meno consapevolmente sta dicendo che quella è la forma di prestigio, di fronte a un femminile che invece è svilimento professionale. Non è linguistica, è percezione di cosa sia oggi essere donna.
Io non sono impositiva: chiamo al femminile, ma se mi viene chiesto il maschile mi adeguo e se ho modo chiedo perché. Di solito vengono sempre fuori storie di sofferenza: "Se mi chiamo avvocata fanno tutti la battutina". Questo si chiama patriarcato: veniamo da lì, ci siamo cresciuti dentro. Le generazioni successive sono già avanti, loro si stanno ponendo questioni che riguardano più generi, non solo maschile e femminile. Dovremmo smettere di pensare che siccome sono giovani sono scemi, che è la narrazione prevalente. Mettono in crisi il nostro punto di vista, per screditarli diciamo che sono giovani. La nostra è una società oltre che maschilista e patriarcale, anche ageista: quindi discrimina moltissimo giovani e anziani.
C'è poi la questione politica: tradizionalmente l'attenzione per il linguaggio ampio è di sinistra, di conseguenza la destra (o la parte più conservativa) si è accucciata nell'angolo del maschile. La scelta di Meloni non stupisce. Faccio notare una cosa del posizionamento di Meloni, interessante, ma contraddittorio. Il suo partito ha definito "boldrinate" le cose riguardanti la lingua: l'attenzione alla lingua come fosse una sciocchezza. Però poi il primo atto ufficiale fatto dal governo Meloni, quando si è insediato, è stato mandare la circolare per far sapere che lei si fa chiamare al maschile. Se le parole non contano non ci fai una circolare.
A proposito di Michela Murgia e della sua famiglia queer: una categoria del linguaggio alternativa, come questa usata dalla scrittrice, che valore ha?
Ha valore di apertura, di messa in discussione di uno dei grandi baluardi del conservatorismo, che è l'idea di famiglia naturale. Il concetto di famiglia naturale è recente, ha poco più di un paio di secoli, non è naturale come vorrebbero farci credere. È un costrutto socio culturale che in quanto tale Michela fa bene a cercare di aprire. Elena Loewenthal, presidente del Circolo dei lettori di Torino, dice che è carente il lessico che riguarda rapporti di famiglia diversi da quelli tradizionali. Si parla ancora di matrigna, patrigno, sorellastra, fratellastro. Ormai la famiglia esplosa è quasi la più comune e non abbiamo nomi non connotati in maniera negativa per definire quel genere di rapporti.
La cosa triste è che, come diceva Murgia in una serie di Stories su Instagram, la domanda più comune che le hanno fatto dopo questa uscita è stata: "Ma allora scopate tutti con tutti?", dimostrando di non aver minimamente capito il concetto di famiglia queer. Tutto si concentra sulla sessualità, che essendo tabuizzata, diventa più interessante. Abbiamo un rapporto non risolto con la sessualità, oltre che col concetto di famiglia.
La lingua cambia col mondo (e viceversa)
Il cambiamento spaventa, è umano. Per nostra natura amiamo crogiolarci in ciò che conosciamo, farci coccolare dalle abitudini e dalla sensazione di sicurezza che trasmettono. È un modo per proteggerci, per non stravolgere le nostre certezze, per non doverci mettere in gioco apportando modifiche capaci di minare alla base le nostre consapevolezze. Ma in un mondo che per sua natura non è mai uguale a se stesso, in cui le trasformazioni sono all'ordine del giorno, come potrebbe la lingua (che proprio quello stesso mondo descrive) restare fissa, immobile e immutabile?