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Nell’era dei social ha ancora senso la figura del fotoreporter di guerra? L’intervista a Gabriele Micalizzi

Intervistato da Fanpage.it, Gabriele Micalizzi ha spiegato la forza del fotogiornalismo, il senso della figura del reporter di guerra oggi, in un’era in cui tutto è a portata di clic, anche i morti sotto le macerie.
A cura di Giusy Dente
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Gabriele Micalizzi "A Kind of Beauty" courtesy of 29 Arts in Progress Gallery
Gabriele Micalizzi "A Kind of Beauty" courtesy of 29 Arts in Progress Gallery

Afghanistan, Thailandia, Ucraina, Gaza, Iraq, Siria: Gabriele Micalizzi e la sua macchina fotografica sono stati su tutti gli scenari di guerra dell'ultimo ventennio, raccontandoli in immagini. Classe 1984, il fotoreporter collabora con testate nazionali e internazionali (New York Times, The Guardian, Internazionale, Wall Street Journal) e nel 2016 è stato incoronato da Oliviero Toscani e David LaChapelle come il primo vincitore del premio Master of photography curato da Sky Arte. Attualmente è in corso una sua mostra a Milano, visitabile fino al 28 giugno presso 29 Arts in Progress Gallery (esposizione a cura di Tiziana Castelluzzo), che riunisce alcuni dei più significativi scatti in bianco e nero. Sono fotografie che raccontano conflitti, vite spezzate, aneliti di libertà, filtrati dal bagaglio emotivo di chi è sul posto per fare chiarezza. Ma che verità ci può essere nell'immagine presentata al mondo da qualcuno che, inevitabilmente, ci fa vedere una porzione di spazio e di tempo, che ha scelto personalmente quel punto di vista? Intervistato da Fanpage.it, Gabriele Micalizzi ha spiegato la forza del fotogiornalismo, il senso della figura del reporter di guerra oggi, in un'era in cui tutto è a portata di clic, anche i morti sotto le macerie.

Gabriele Micalizzi - Bright Darkness, Sirte, Libya 2016 - Courtesy of 29 Arts in Progress Gallery
Gabriele Micalizzi – Bright Darkness, Sirte, Libya 2016 – Courtesy of 29 Arts in Progress Gallery

Nei tuoi scatti racconti i conflitti dell’ultimo ventennio. Per un fotoreporter che si reca in quei posti, cosa è cambiato in questi anni? Come hai visto cambiare il fotogiornalismo di guerra? 

Ciò che è cambiato da quando ho iniziato il lavoro di fotogiornalista, sono principalmente tre aspetti. In primis la tipologia di armamenti bellici ad esempio l’introduzione dei droni, il tracciamento tramite gps dei telefoni e il modo di combattere degli eserciti non convenzionali. Il secondo aspetto è legato alla tecnologia. Con l’avvento dei social network le informazioni devono essere immediate quindi l’approccio alle storie è cambiato. C’è un utilizzo più bulimico dei contenuti, l’editoria si trova in una costante competizione con la viralità delle moderne tecnologie di comunicazione, di conseguenza le storie e il lavoro del fotoreporter sono meno valorizzati.

Oggi ci sono soldati che mentre combattono le loro guerre, con le loro GoPro filmano tutto quello che vivono e gli stessi governi diffondono video girati con i droni sul campo di battaglia. Tutte queste immagini sono però inevitabilmente di parte. Questo è il motivo per cui nel 2024 ha ancora senso fare questo lavoro: ci sarà sempre bisogno di una visione esterna e non di parte delle situazioni di conflitto per poterle capire al meglio. Il terzo aspetto è legato al mercato dei media. Mi riferisco principalmente del panorama italiano. Oggi c’è una svalutazione del mestiere del reporter e un cambiamento del modo di fare giornalismo. I giornalisti sono diventati opinionisti, sono schierati e non stanno più sul campo, vivono di agenzie e notizie prese qua e là su internet, non verificano più le fonti

I maestri del fotogiornalismo che cosa hanno lasciato in eredità ai reporter di guerra di oggi? 

Maestri del fotogiornalismo come Robert Capa, Don Mccullin, James Nachtwey ci hanno lasciato il valore e l’importanza di questo mestiere, la professionalità e sicuramente il fatto che una foto vale più di mille parole. Leggendo la prima pagina della biografia di Capa, descrive un po’  la situazione odierna: poco lavoro e fatto male, sembra che le cose non cambino mai. Nonostante questo mestiere oggi viva una profonda crisi ci sarà sempre un fotografo a documentare una guerra, una rivoluzione, una calamità naturale. Ci vorrà sempre qualcuno che mostri il mondo, le persone e i loro drammi sperando che serva per un futuro migliore.

Gabriele Micalizzi - Broken Dreams - 22, Donbas, Ukarine 2022, Courtesy of 29 Arts In Progress Gallery
Gabriele Micalizzi – Broken Dreams – 22, Donbas, Ukarine 2022, Courtesy of 29 Arts In Progress Gallery

Quali sono le immagini che porti impresse nella mente, delle guerre che hai seguito sul campo? 

Ce ne sono mille, tante che mi hanno colpito, tante che mi hanno cambiato e tante che ancora oggi non ho capito, come quella volta a Gaza quando ho fotografato questi due fratelli che avevano perso la loro madre colpita da un drone e non sapevano neanche come collezionare i resti del suo corpo. Oppure le madri che stringevano i propri figli mentre cercavano di salire sugli aerei militari che scappavano dopo la presa di Kabul da parte dei talebani. Ma ci sono foto che mi porto dentro nonostante non le abbia scattate io come i bambini nascosti nei bunker rintanati tra le conserve di pomodoro, immagine fotografata dal mio collega morto a Sloviansk nel 2014 Andy Rocchelli. 

Nell’era dei social, delle dirette in mondovisione, cosa può dare di più il fotogiornalismo, qual è la sua forza? 

L’approfondimento. Oggi tutti urlano e nessuno ha un cazzo da dire. L’unico modo per raccontare realmente le storie è dedicarci del tempo, entrare realmente nelle situazioni, conoscerne profondamente i suoi protagonisti. Vivendo con loro, mangiando con loro, dormendo con loro. Oggi l’industria non dà più valore alla qualità, preferisce la velocità e il pressapochismo. 

Cosa cattura la tua attenzione quando viaggi? 

Il mio interesse principale sono gli esseri umani, viaggiando in posti esotici e diversi si viene stupiti dai costumi, dalle usanze eccetera. Io sono sempre incuriosito da ciò che fanno le persone, come interagiscono e come comunicano. Ad esempio mi affascina molto il linguaggio non verbale, l’utilizzo della gestualità che cerca di decodificare. Comunque solitamente la prima cosa che faccio è comprare i giornali del luogo e guardare le foto per capire il posto in cui sono. 

Gabriele Micalizzi "A Kind of Beauty" courtesy of 29 Arts in Progress Gallery
Gabriele Micalizzi "A Kind of Beauty" courtesy of 29 Arts in Progress Gallery

Cosa fa di uno scatto una fotografia iconica, un simbolo? 

Ci sono delle regole non scritte. Molte volte è una necessità storica se pensiamo all'iconica foto della bambina del Vietnam che corre senza vestiti che ha portato al termine della guerra. Ma a mio avviso sono più interessanti quelle foto inaspettate, come il ritratto di Falcone e Borsellino mentre sorridono. Questa immagine è diventata un vero e proprio simbolo che porta dietro un ideale più grande di un semplice sorriso: la lotta alla mafia. Però oggigiorno la saturazione bulimica di immagini a cui siamo esposti depotenzia sempre di più il contenuto delle immagini stesse. Se pensiamo all’attuale conflitto israelo-palestinese mentre scorriamo Instagram vediamo la foto di una colazione di nostra cugina, il gatto di tua zia e poi i corpi dei bambini schiacciati dalle macerie. Si sta sviluppando una sorta di catatonia emotiva che porterà ad una desensibilizazione. 

Ci sono foto che hai scelto di non pubblicare, di non divulgare? 

Mi sono trovato di fronte alla scelta di mandare una foto piuttosto che un’altra ma solo per coerenza del racconto. Ho pubblicato foto che mi hanno creato problemi o hanno usato mie foto in modo inappropriato. Più che il non pubblicare o il non divulgare un'immagine, c’è stato un caso in cui non sono riuscito a scattare una foto: di fronte ad un padre a cui raccontavano che suo figlio aveva ucciso a coltellate un travestito, leggendo nei suoi occhi la delusione, la paura, l’impotenza per quel fatto non sono riuscito a violare quel suo momento di profondissimo dolore. 

Gabriele Micalizzi - The Slow Power of the People, Cairo, Egypt 2011 - Courtesy of 29 Arts in Progress Gallery
Gabriele Micalizzi – The Slow Power of the People, Cairo, Egypt 2011 – Courtesy of 29 Arts in Progress Gallery

In base a cosa scegli colore/bianco&nero? 

Sicuramente nasco come “fotografo bianco e nero” venendo dalla fotografia analogica, ancora oggi stampo in camera oscura. Ma scegliere la grammatica di questo linguaggio rimane una necessità da progetto a progetto. Bisogna ragionare sempre su quale sia l’output di una fotografia e quindi dove effettivamente questa foto arriverà o verrà usata per darle il giusto carattere, una linea narrativa che possa aiutare l’utente a comprenderla a pieno. 

Perché il titolo "A Kind of Beauty"? 

Il titolo deriva dalla scelta di intraprendere questo percorso nel mondo dell’arte. Avendo sempre fotografato in un’ottica documentaristica con lo scopo di lasciare immagini alla storia, l’estetica non era e non potrà mai essere al primo posto. Il nostro occhio è viziato dalla pubblicità, dal cinema e dalla televisione. La rappresentazione della bellezza ha uno standard con fini commerciali. Io ho sempre lavorato in realtà estreme, fotografando il reale e la realtà spesso e volentieri è cruda. Però più mostro le mie fotografie e più capisco che ci sono delle letture differenti che provocano le più disparate emozioni: oltre alla crudezza della vita, le mie immagini portano con sé anche la bellezza della complessità dell’essere umano. 

Gabriele Micalizzi "A kind of Beauty" courtesy of 29 Arts in Progress Gallery
Gabriele Micalizzi "A kind of Beauty" courtesy of 29 Arts in Progress Gallery

Come si sintetizza la complessità di una guerra in una foto? 

In fotografia nulla è oggettivo, tutto è una scelta: dall’inquadratura alla porzione di realtà che vuoi raccontare. Per quanto, fra noi reporter, ci sia una ricerca costante dell’oggettività, alla fine possiamo solo mostrare il nostro personalissimo punto di vista. Quindi vivendo nella condizione di conflitto lo scatto è il risultato di un'esperienza profonda che racchiude una molteplicità di concetti ma riesce a riassumerli grazie ad un’estrema sintesi: la foto.

Cosa ti spinge a fare questo mestiere? 

Dopo tanti anni, tanti chilometri, tanti sacrifici, tante persone perse e tanto dolore rimane comunque l’illusione che questo mestiere o una fotografia possano cambiare il mondo in cui viviamo.

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