Io Capitano, la sfida estetica dei colori: la scena del volo col vestito verde spiegata dal costumista
Seydou sogna l'Europa ed è un sogno che gli costa caro. Parte assieme al cugino Moussa dal Senegal, nascondendo le sue intenzioni persino all'amata madre, alla volta di quella che si rivelerà una vera e propria Odissea. Dakar, il deserto del Sahara, il confine libico, i centri di detenzione, i ghetti multietnici di Tripoli, il mare aperto e infine le coste italiane: Matteo Garrone in Io Capitano racconta la traversata dell'orrore. Ed è un percorso tristemente noto: basta ascoltare un tg. Il film italiano è entrato nella fatidica cinquina degli Oscar 2024 come Miglior film straniero. Dovrà vedersela con Perfect Days di Wim Wenders (Giappone), La zona di interesse di Jonathan Glazer (Gran Bretagna), La società della neve (Spagna), The teachers lounge (Germania).
Io Capitano raccontato dal costumista Stefano Ciammitti
I colori raccontano molto del viaggio di Seydou e Moussa: le variopinte tinte dei costumi tradizionali senegalesi lasciano piano il posto al grigio di tute sporche, logore e consumate. Stefano Ciammitti, il costumista del film, ha raccontato a Fanpage.it come si è documentato per accostarsi a una cultura così diversa, per rappresentarla con verità e potenza, affinché andasse di pari passo al viaggio del protagonista. È stato un lavoro lungo e minuzioso, in cui Matteo Garrone è sempre stato presente.
Come ti sei preparato per raccontare visivamente e coi costumi una cultura così diversa? Come si è svolta la fase di studio?
La preparazione al film è durata anni, quando Garrone mi ha chiamato mi sono immerso con lui in tutta la documentazione sterminata che aveva raccolto in questi anni. Abbiamo parlato di come rendere organico tutto quel materiale eterogeneo, pittorico, per cercare un ordine nel caos, una estetica comune. Vedere le foto vere dei cadaveri nella sabbia, degli effetti delle torture nei campi di detenzione libici è stato particolarmente doloroso. E poi siamo partiti per il primo sopralluogo, per farci sorprendere anche dall’inaspettato e per conosce da vicino quello che avremmo dovuto descrivere. Con le persone del luogo ho iniziato a girare per Dakar, entrare nelle case, nel cicalio assordante dei mercati della Medina, con i pescatori del porto a scambiare magliette dilaniate in cambio di nuove e, mai sazi, anche la sera, con Matteo andavamo alla scoperta dei posti più interessanti e a volte "malfamati" della Medina.
La sfida estetica dei costumi del film, in totale sintonia con quella delle scenografie e della fotografia, era vedere poi durante il viaggio questi colori velarsi, incupirsi, sporcarsi sempre di più fino ad arrivare quasi ad un completo offuscamento, che ha il suo apice nei centri di detenzione, ma che cela sempre però la sua origine satura, creando così una sua poesia pittorica.
La scena iniziale della danza: è una scena corale ma risulta omogenea, non discordante. Come hai ottenuto questo effetto di coesione, in cui ogni personaggio comunica visivamente con l'altro?
Per preparare la scena della Danza del Sabar, la loro danza tradizionale, sono stato per giorni nelle loro case, nei loro cortili gremiti di gente, talmente tanta che non ho mai capito esattamente chi abitasse dove, ma era un continuo entrare e uscire di tutto il vicinato, sorrisi, energia vitale a palate, gente che intanto prepara il pranzo in enormi pentoloni e te lo offre. Nel frattempo entravano nelle stanze per poi uscire con un vestito più colorato dell’altro. Io fotografavo tutto, è stata chiaramente la preparazione più bella e divertente della mia vita.
Con i sarti del posto ho costruito per loro vestiti e copricapi che hanno amato moltissimo. La cosa più curiosa è il loro uso delle parrucche, anche nella vita quotidiana: coloratissime, a volte scultoree, poi ciglia finte lunghissime, trucchi di ogni genere, extension colorate. Quello che volevamo ottenere era questo effetto pittorico organico, utilizzando soprattutto colori puri, sperimentando accostamenti di ogni genere, in maniera maniacale.
L'effetto di "sporco" dei vestiti è stato creato o avete usato capi già usurati?
Quello che ho fatto assieme alla mia assistente Fiordiligi Focardi, era ogni giorno aggiungere una sporcatura, una scoloritura, una macchia, una sbavatura. Questo è stato possibile grazie al fatto che il film, come tutti i film di Garrone, è stato girato in ordine cronologico. Il viaggio che si vede nel film è quindi il viaggio che abbiamo percorso anche noi assieme ai due giovani e talentuosissimi protagonisti. Loro ogni giorno scoprivano anche cosa avrebbero dovuto fare, questo è un metodo che ha influenzato il film in maniera decisiva secondo me. Noi costumisti a volte abbiamo il vizio di voler primeggiare, di mettere davanti il proprio ego (spesso veramente troppo ingombrante) davanti alla necessità di mettersi in ascolto, provare a fare un passo indietro, cercare di scomparire in qualche modo.
È quello che ho cercato di fare e che a mio parere è riuscito a fare Garrone, evitando inutili virtuosismi tecnici per concentrare tutto sull’ascolto di quello che ti succede attorno. Molte delle magliette che si vedono nel film le abbiamo letteralmente rubate dalla strada. Chi fa il nostro mestiere sa bene quanto lavoro ci sia dietro l’invecchiamento di un capo, e a volte si rimane un po' timidi, non si vuole esagerare. Girando per strada io e Matteo eravamo catturati dalla bellezza di maglie ad un livello di usura estremo, ed è nata quasi una gara per chi ne trovava di più belle, dovevamo in qualche modo anche riuscire a farcele dare, convincere le persone che però non erano mai troppo restie a liberarsene.
Berretti, copricapi e veli sulla testa: sono gli unici accessori che si vedono. Che valenza hanno?
Essendo il Senegal per maggioranza di religione musulmana sunnita (il 95%) spesso le donne indossano abiti con veli che coprono anche la testa. Ovviamente durante il viaggio questi veli si rivelano molto utili per ripararsi dalle nubi di sabbia e polvere che incombono. Ai ragazzi invece ho voluto mettere i loro cappelli tradizionali quando sono a Dakar, coordinati alle loro magliette da calcio e alle loro tute griffatissime. È molto importante nel film questa continua tensione all’Occidente che si riflette anche e soprattutto sull’abbigliamento. Tutto deve essere firmato e molto visibile, convivono nello stesso ‘armadio’ senza problemi anche magliette di squadre avversarie, le scarpe pulitissime e all’ultima moda, è una vera e propria ossessione. I cappelli che ho trovato per Moussa e Seydou ci piacevano molto perché richiamano direttamente quelli di Pinocchio, in qualche modo Moussa è un moderno lucignolo.
L'angelo con le ali di paglia: è una figura della cultura locale? È così che loro immaginano questa figura o è frutto di un tuo lavoro?
L'angelo è frutto dell’immaginazione di Garrone, è l’unione della nostra e della loro cultura. Io ho studiato molto gli abiti delle tribù e delle etnie che ancora esistono in Africa per costruire questo vestito e la truccatrice Dalia Colli ha magistralmente pitturato il suo corpo come ancora si fa in molte feste tradizionali delle tribù.
Nella scena della donna che vola: il vestito verde è un abito tradizionale?
Il vestito verde è un tipico vestito della tradizione, me lo ha donato la vera mamma di Seydou perché ne ero estremamente affascinato, doveva essere lei a volare quindi aveva anche un significato affettivo.
Come sei uscito da questo film, emotivamente e professionalmente?
Ne sono uscito cambiato, come ti cambiano i viaggi d’avventura veramente importanti, con momenti di disperazione e momenti di euforia. Non è stato solo avere l’opportunità alla mia età di poter lavorare con il mio regista italiano preferito, è stata una esperienza oltre il cinema, come quelle avventure dove non sai con certezza se arriverai veramente alla fine ma che ti cambiano la prospettiva della realtà. Sono molto felice di come è venuto e di tutti i premi e l’entusiasmo che si è creato attorno a quest’opera! Da quando è uscito nei cinema non è passato un giorno senza che qualcuno mi scrivesse o chiamasse dicendo: ma cosa avete fatto? Oltre alla Poesia, speriamo di aver fatto anche qualcosa che influenzi in modo positivo il mondo che ci circonda.