Il boom degli abiti vintage: comprare di seconda mano è il futuro della moda?
C'era una volta l'era della shopping terapia, quando gruppi di donne sciamavano di negozio in negozio tornando a casa cariche di sacchi e sacchetti, sorridendo a ogni strisciata di carta. Lo shopping compulsivo come booster dell'umore, tanto glorificato da film e serie tv, oggi non trova più posto in un mondo che si impegna a combattere l'emergenza climatica. Sappiamo infatti che i nostri consumi hanno un impatto enorme in termini di emissioni, e l'abbigliamento non fa eccezione. I consumatori oggi hanno una maggiore sensibilità sul tema della salvaguardia del pianeta e lo dimostra la continua crescita di negozi vintage e app per il second hand. Se una volta a comprare usato erano solo pochi convinti ambientalisti, oggi è un trend che spopola soprattutto tra i giovanissimi. Un'ottima pratica di economia circolare, ma che rischia di farci cadere nello stesso errore, avverte Greenpeace: comprare in maniera esagerata e compulsiva, quando dovremmo ripensare da zero le nostre abitudini di consumo.
Il mercato in crescita del second hand
A dare un grande impulso al second hand sono specialmente le nuove piattaforme e le app, che permettono di vendere rapidamente i capi che non si usano più. Da Armadio verde a Depop, passando per Rebelle, la compravendita oggi è incredibilmente facile, Piattaforme come Vinted e Vestiaire Collective non solo hanno rilanciato il mercato del second hand, ma lo hanno reso cool, cambiando le abitudini di acquisto dei più giovani. Un rapporto di Vestiaire Collective sostiene che le aziende di rivendita di moda sono in crescita esponenziale: si prevede che la loro quota di mercato si raddoppi dal 9% al 18% tra il 2022 e il 2030. Se questa crescita continua, il mercato del second hand farà risparmiare al pianeta 38 miliardi di euro in costo ambientale, allungando il ciclo di vita dei vestiti.
Ripensare le nostre abitudini di acquisto
Mettere in vendita i capi anziché buttarli è un passo avanti, ma secondo gli attivisti anche questo modello si basa comunque su una sovrabbondanza iniziale di abiti e su una pubblicità che spinge i consumatori all’acquisto per gratificazione. Fanpage.it ha intervistato Chiara Campione, Head of the Corporate and Consumer Unit di Greenpeace Italia, per capire l'impatto delle nostre abitudini sull'ambiente. “Il marketing legato a questi tipi di consumo funziona esattamente come il marketing del fast fashion: mi spingono a comprare e non a individuare un bisogno. Oggi i negozi di seconda mano sono super cool e attrattivi come le grandi catene”. Intendiamoci: se devo comprare una nuova felpa la scelta più green è sicuramente comprarla di seconda mano. Ma a monte dobbiamo porci una domanda: mi serve davvero una nuova felpa? O posso riutilizzare quella che ho già? "L'advertising è particolarmente convincente nel prometterci uno stile di vita gratificante attraverso gli acquisti ed è impossibile sottrarsi – conclude Campione – Noi chiediamo ai governi di ridurre l'advertising, dal fossile alle altre categorie commerciali".
Noleggio, scambio, upcycling: i modelli alternativi al fast fashion
"L'attuale modello di business della moda non potrà correggersi fino a diventare interamente sostenibile – afferma Chiara Campione – abbiamo bisogno di più alternative e di più modelli sostenibili". Oltre al second hand ci sono infatti altre strade possibili, dalla riparazione allo scambio. "Un modello che io definirei virtuoso è il noleggio degli abiti: utilizzo una cosa e la rimetto nelle mani di chi la conserverà a lungo, permettendo ad altri di usarla". C'è poi la pratica virtuosa dell'upcycling, che consiste nel creare qualcosa di nuovo da ciò che esiste già, minimizzando gli sprechi. Un caso particolare, dice Chiara Campione, è quello di Patagonia, il brand di outerwear da sempre paladino della sostenibilità: "Chiedono ai loro clienti di comprare solo se è necessario: offrono riparazioni gratuite e una lunga durata nel tempo, fidelizzando i clienti". Riparare, ridurre, riusare: questi sono i pilastri per allungare il ciclo di vita dei prodotti, per esempio scambiandoli quando non si usano più o riportandoli a chi può recuperare le fibre. "Il problema del fine vita dei prodotti di moda se lo stanno ponendo in molti – sottolinea Campione – ma tra i grandi brand non l'ha veramente risolto nessuno".
Come difenderci dal greewashing
Una forma di pubblicità particolarmente insidiosa è il greenwashing: basta un cartellino verde o la parola "eco" per farci sentire meno in colpa, spingendoci a fare acquisti di cui non abbiamo bisogno pensando di "aiutare il pianeta". Chiara Campione conferma: "Oggi è veramente difficile distinguere le operazioni di greenwashing e non ci si può aspettare che i clienti facciano ricerche approfondite ogni volta. Il mio consiglio è capire quali sono i due tre brand di cui ci fidiamo, oltre ovviamente a ridurre gli acquisti". In generale, la regola d'oro è una: la cosa più green che puoi fare è non comprare nulla. "Dobbiamo fare un passaggio di mindset, da consumatori a cittadini: io non sono quello che compro".