Cosa significa (davvero) la parola woke e perché la sentiremo sempre più spesso
Barbie è un film woke. Scrivere con lo schwa è woke. Un remake di Biancaneve senza principe azzurro? Woke. Sentiremo questa parola sempre più spesso: il termine ‘woke' sta entrando nel linguaggio comune anche in Italia, ma con un significato radicalmente mutato rispetto all'originale. Letteralmente, woke significa ‘sveglio', cioé consapevole, attento alle tematiche sociali e rispettoso della diversità, nei comportamenti e nel linguaggio. Il termine è entrato nell'Oxford English Dictionary nel 2017, ma a renderlo molto popolare sono stati, paradossalmente, i conservatori statunitensi. Ora che anche i nostri politici hanno iniziato a usarlo è il momento di capirsi, una volta per tutte, su cosa significa woke.
Com'è nato e cosa significa il termine woke
La parola in sé nasce con un significato positivo: quello di essere all'erta, cioé vigili e sensibili, in particolar modo sulle questioni del razzismo, delle ingiustizie sociali e delle tematiche di genere. Fino a poco tempo fa si definivano woke persone giovani – i millennial e la generazione Z – attente a un uso inclusivo del linguaggio e a evitare e denunciare le discriminazioni. In generale, informarsi e fare uno sforzo attivo per adottare comportamenti rispettosi e un linguaggio inclusivo è un comportamento ‘woke'. Il termine è nato tra le comunità afroamericane: nel 1962 il New York Times l'ha inclusa in un glossario di "frasi e parole che potresti sentire oggi ad Harlem". Twitter, nei primi anni Duemila, ha contribuito enormemente alla diffusione del temine, utilizzato anche dalle attiviste Pussy Riot. Con questa accezione il termine entrato, nel 2017, nell'Oxford Dictionary: "Consapevole delle questioni sociali e politiche, in particolare del razzismo". Ma solo nel 2020 la parola è esplosa, durante le proteste del movimento Black Lives Matter. Ed è più o meno in quel momento che è stata impugnata con un nuovo significato.
Perché la parola woke viene usata in senso negativo
Donald Trump, nel 2021, ha sintetizzato il cambiamento dicendo in un comizio "woke is for loser", cioé: essere woke è da sfigati. Cos'è cambiato? La parola, innanzitutto, è uscita dai confini della comunità afroamericana e il suo significato è stato progressivamente ‘tirato' e diluito in un generale "empatico" o "attento al linguaggio". Nel discorso pubblico ha poi preso un'accezione sempre più negativa: è woke chi corregge gli altri quando parlano, è woke chi ha un atteggiamento censorio verso le opinioni non in linea con le proprie (leggi: conservatrici). Insomma, woke è passato a indicare un impegno solo di facciata, legato a questioni triviali come le parole senza portare a nessun cambiamento reale. Woke, nel ragionamento della destra, è l'equivalente del nostro ‘politicamente corretto': una parola nata con la nobile intenzione di non discriminare nessuno, ma progressivamente usato per denigrare e ridicolizzare alcuni cambiamenti sociali in atto.
Che cos'è la cultura woke
Oggi si parla addirittura di "wokeness culture" o di "cultura woke": sintetizzando grossolanamente, è quella che rilegge la fiaba di Biancaneve senza il principe e senza i nani per non "offendere nessuno", è quella che ha prodotto una Sirenetta nera e che vuole "cancellare" il presepio nelle scuole. Il linguista Tony Thorne ha detto al New Yorker: "La destra conservatrice si è impossessata di questa parola, per incolpare di tutto, dalle sparatorie di massa mortali alla crisi delle nuove reclute militari". Il dato singolare è che la parola è arrivata anche in Italia col suo carico di contraddizioni: Matteo Salvini in un post su Instagram ha parlato di "follia dell'estremismo woke che arriva ad annullare tutte le identità". Ma se una parola ha il potere di spaccare un dibattito politico, forse vale la pena conoscerla, prima di impugnarla.