Dieta mediterranea, verità e falsi miti del modello alimentare di cui andiamo tanto fieri
Dagli anni Cinquanta la dieta mediterranea si è imposta come modello alimentare per eccellenza, quello raccomandato da nutrizionisti, medici e biologi perché ritenuto il più vario, il più sano, quello con maggiori benefici sul benessere del corpo. Alla base di questo modello ci sono verdure, frutta, cereali, pesce, pasta, pane, legumi. Ma questo regime è realmente rappresentativo dell'area del Mediterraneo? No: è questa la risposta a cui arriva, dopo una lunga analisi, l'antropologo dell'alimentazione Vito Teti.
La dieta mediterranea è una bugia
Vito Teti nel suo libro Dieta mediterranea – Realtà, mito, invenzione spiega proprio che la dieta mediterranea è stata inventata dall'uomo quasi a tavolino, creata come soluzione alle necessità di un determinato periodo storico. È nata per combattere le malattie del benessere (obesità, diabete, colesterolo, ipertensione) dovute agli eccessi calorici del boom economico. La seconda critica che muove è quella di essere un modello che non si rifà pienamente a tradizioni culinarie dell'area del Mediterraneo: tanti prodotti non sono esattamente locali o tipici, ma arrivano dall'esterno (per esempio quelli introdotti con la scoperta dell'America). Quella che chiamiamo oggi dieta mediterranea, insomma, è il risultato di passaggi, incontri e commistioni di popoli differenti degli ultimi secoli. Nonostante questo viene spacciata con un mediterraneo-centrismo esasperato, che non tiene conto di quei processi globali: viene presentato come un modello fisso e immutabile nel tempo, radicato nelle tradizioni. In conclusione, il cibo è progressivamente entrato a far parte di un meccanismo di marketing e pubblicità: lo slogan ha preso il sopravvento sulla dimensione sociale e rituale, di condivisione. Quello che chiede Teti è maggiore rispetto per la ricchezza e la diversità delle culture alimentari del Mediterraneo, più che l'esaltazione di un mito commerciale che non trova riscontro nella realtà storica di nessuna regione dell'area.
Perché è più corretto parlare di culture alimentari del Mediterraneo e non di dieta mediterranea?
L'espressione dieta mediterranea nasce a metà degli anni Cinquanta sotto l'impulso di un uomo americano, un medico biologo, che faceva delle ricerche nel Cilento, in Calabria e in altre aree del Mediterraneo. Era alla ricerca di un modello di alimentazione che potesse essere efficace per contrastare i disturbi della salute tipo ipertensione, malattie cardiache e così via, legati a un eccesso nutritivo. La società americana aveva già risolto il problema della fame, ma andava già verso l'opulenza: il problema del Paese era l'eccesso, il troppo consumo di carne, grassi e zuccheri. Lui cercava una contro alimentazione risolutiva per quella società che era nel boom economico, che aveva superato il problema della fame. Il problema è che lui adopera l'espressione dieta mediterranea riferendosi a un contesto in cui le popolazioni avevano ancora il problema della fame, non quello dell'esagerazione dei consumi. Erano ancora in condizioni di precarietà. La triade mediterranea che viene messa a fondamento per la dieta mediterranea cioè olio, grano e vino non era una triade accessibile. Il pane di grano è arrivato più avanti, negli anni Sessanta, fino a quel momento era nero. Il pane bianco era solo per i ceti alti. Anche il pesce, che viene indicato di solito indicato come un elemento cardine della dieta mediterranea, non era accessibile: si consumava non pesce fresco, ma quello salato o conservato.
Quali sono i limiti della dieta mediterranea?
Questo modello corrisponde a un mito, a un'ideologia, non corrisponde a una pratica, a quello che realmente le persone mangiavano. Nel giro di un ventennio si passa dal poco al troppo: se prima la dieta mediterranea non esisteva perché non era accessibile adesso non esiste perché quei ceti popolari che hanno accesso ai beni di consumo, cominciano un allontanamento dalla dieta tradizionale. Cominciano ad essere obesi, arrivano le malattie che erano degli americani e quindi in un certo senso si passa a un'alimentazione che non corrisponde più a quel modello di dieta mediterranea, è qualcosa di diverso. Ecco perché io propongo di parlare di culture alimentari del Mediterraneo non omogenee. C'erano e ci sono diversità significative da zona a zona. Il termine cultura risolve anche un altro problema: mangiare non significa solo ingerire cibo, ma significa produrlo, significa avere consapevolezza del rapporto con la terra, sapere da dove proviene quel cibo. L'altra critica che muovo alla dieta mediterranea è che viene vista in una specie di staticità, di fissità. Prima del Cinquecento non aveva patata, pomodoro, peperoncino, cacao, arrivati con la scoperta dell'America. La dieta mediterranea ha una sua mobilità, non può restare chiusa, deve aprirsi ad altre cucine, come hanno fatto i mediterranei emigrati in America, che da un lato hanno cercato di conservare i prodotti del mondo d'origine e dall'altro però si sono adattati al mondo di arrivo. Vale anche per la polenta, da Sud a Nord Italia. Bisogna misurarsi col cambiamento: i giovani hanno accesso ad altre ad altre cucine, c'è grande consumo di sushi e fast food. La dieta mediterranea dovrebbe aprirsi a queste novità. Il cibo è ritualità, convivialità, condivisione, accoglienza, ritualità. Non siamo al centro del mondo: dobbiamo avere consapevolezza del rapporto con la nostra terra, ma va tutelato in modo non retorico questo. La dieta è fatta di mescolanza.
Quanto c'è di aspetti mediatici, propagandistici e consumistici, nella mitizzazione della dieta mediterranea?
All'inizio la prima idea di dieta mediterranea era per la fondazione Rockefeller e quindi diciamo che nasce già con degli interessi economici di alcune industrie del settore alimentare. Le industrie, la pubblicità, i media giocano un ruolo importantissimo in questo senso. È un modello che si afferma anche per interessi industriali e quindi per questo bisogna essere sempre cauti nel sostenerlo. In questo relativismo alimentare assoluto ven venga un modello, anche costrurito, ma che abbia una storia, sia frutto di consapevolezza, di legame con la terra.
È sostenibile un modello di dieta fisso, immutabile? Quindi che non tiene conto di commistioni culturali, di cambiamenti climatici, di cambiamenti nei consumi e nella disponibilità di alimenti.
Forse con il problema dello spopolamento che conoscono alcuni Paesi, con questo bisogno di ritorno alla terra e anche con questa richiesta di salubrità e di buon cibo, in qualche modo i prodotti locali potrebbero avere una fortuna notevole, anche per per un tipo di turismo culturale sostenibile, per quello che riescono a proporre i produttori locali, il cosiddetto chilometro zero: tu sai chi produce e cosa produce davvero. Adesso si potrebbe fare in modo che oltre alla quantità ci sia la qualità, dopo i tanti eccessi quantitativi che in qualche modo quasi compensavano una storia di privazione e di fame. Ma noi non siamo solo animali. Il cibo è anche condivisione, convivialità, cura e scambio.