Che cos’è la sindrome della capanna e perché ci fa paura il mondo esterno
Quando si parla di sindrome della capanna o sindrome del prigioniero ci si riferisce a una condizione di cui si è molto parlato nel post pandemia, ma che in realtà sembra risalire a molto prima, legata soprattutto ai freddi Paesi nordici dell’Europa e dell’America, dove a causa delle rigide condizioni climatiche invernali si resta isolati in casa per mesi. Qualcosa di molto simile si è sperimentato durante la pandemia di Covid-19, coi ripetuti lockdown dovuti all'emergenza sanitaria, che hanno costretto tutti dentro le mura domestiche per periodi prolungati. Molti si sono chiusi completamente in quella dimensione domestica, rifiutando il mondo esterno anche nel momento in cui si è potuto tornare alla normalità. Col dott. Davide Carlotta, psicologo e psicoterapeuta dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, abbiamo approfondito questa condizione.
Che cos'è la sindrome della capanna
Come per l'odofobia, anche per la sindrome della capanna c'è difficoltà di classificazione. L'esperto ha chiarito: "Qui usciamo dalle condizioni cliniche manualizzate. C'è della letteratura, ma perché è indicata come folk syndrome per dire che è un concetto che fa parte della della psicologia popolare. È un concetto che si può ritrovare nel sentire comune. In inglese la chiamano cabin fever. Si parla di cabin fever per descrivere un po' quella condizione psicologica che deriva dal restare isolato per periodi più o meno lunghi di tempo in uno spazio confinato. Stiamo parlando in buona sostanza quasi di una sindrome da imprigionamento".
I sintomi della sindrome della capanna
Di base la sindrome della capanna è una paura del mondo esterno: ci si sente incapace di fronteggiarlo e di affrontarne i cambiamenti, quindi si preferisce sostare in una condizione più comoda. Si palesa con ansia, irascibilità, perdita di energia, mancanza di motivazione, disorientamento, disturbi del sonno: si prova disagio al pensiero di abbandonare le mura domestiche. L'esperto ha spiegato: "La cabin fever è in buona sostanza l'esperienza che molti di noi hanno fatto durante la pandemia, costretti in casa. Diverse persone hanno sviluppato una serie di problematiche che vanno dall'affaticabilità alla difficoltà di concentrazione oppure insonnia, ipersonnia (dormire eccessivamente), problematiche di tipo ansioso, irritabilità. Confinati per un periodo protratto di tempo, senza poterci muovere come meglio crediamo, iniziamo a soffrire psicologicamente. Siamo una specie molto adattabile e può anche verificarsi il caso che dopo un periodo in questi contesti ristretti e illimitati, poi ci adattiamo e facciamo fatica a riemergere dalla grotta". Nel caso specifico della pandemia, c'è anche una relazione con la questione sanitaria, alla base del mancato abbandono delle mura domestiche: "Ci potrebbero essere timori rispetto alla salubrità dell'ambiente. Per diverso tempo abbiamo convissuto col timore dell'infezione e quando poi abbiamo avuto un po' più di libertà alcuni si sono trovati a sperimentare la paura. Finché sono a casa mia tutto tranquillo, là fuori invece chissà".
Come tornare liberi
Uscire dalla capanna è possibile, ma non così immediato. Come ha spiegato lo psicoterapeuta: "Quando non ne possiamo più di rimanere reclusi l'impulso sarebbe quello di uscire noncuranti del pericolo: arrivato a un certo livello di sofferenza esco, mi butto fuori dalla capanna anche a rischio della vita. Invece ci adattiamo al confinamento. In questa difficoltà di affrontare lo spazio esterno è fondamentale capire le motivazioni. Bisogna fare un certo tipo di lavoro, capire il perché di certe convinzioni, che possono certo avere a che fare anche con delle rappresentazioni rispetto a sé per cui non mi sento a mio agio, non mi sento sicuro nell'uscire nel mondo. È fondamentale capire nel singolo caso da cosa ha origine il timore, il non voler uscire. Si parte da lì. Il lavoro è sul singolo caso".