Anoressia, quali sono i campanelli d’allarme. “Non chiedete a chi soffre quanto mangia ma come sta”
Durante l’adolescenza, Daria ha dovuto fare i conti con l’anoressia. Racconta a Fanpage.it: “Ero diventata gelosa del mio dolore, della mia malattia. Eravamo solo io e lei in perfetto equilibrio. Col tempo però, non sono più riuscita a nascondere quello che provavo, quello che pensavo ma soprattutto quello che ero diventata: la malattia mi aveva cambiata, indebolita, divorata dentro e fuori. Ed è qui che ho smesso di lottare contro me stessa e ho chiesto aiuto”. Dopo sei anni, due ricoveri in ospedale e tre nei centri dedicati alla cura dei DCA è guarita ma “ciò che è stato, che ho vissuto, che ho provato negli anni di malattia non lo dimenticherò mai. Ci sono dei pensieri che talvolta ritornano, meno insistenti, ma si fanno sentire. La differenza è che ho imparato a gestirli, ad accettarli e quindi a conviverci”. Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoanalista, responsabile della U.O Riabilitazione dei Disturbi Alimentari e della Nutrizione presso Auxologico Piancavallo, spiega a Fanpage.it quali sono i segnali dell’anoressia, che influenza ha la società e la famiglia nell’insorgenza della malattia e come approcciarsi a chi sta soffrendo: “Più che chiedere ‘quanto hai mangiato?’ bisognerebbe domandare ‘come stai oggi?’”
Quali sono i segnali dell’anoressia nei bambini e negli adolescenti
Daria non sa perché si è ammalata: “È successo tutto all'improvviso. Una fissazione? Una mania? Una solitudine interiore? Non saprei dirlo. Pian piano ho iniziato a perdermi nella quotidianità, a sentire delle voci interiori che mi spingevano a odiarmi, a desiderare di scomparire, a rifiutare il cibo…” Leonardo Mendolicchio chiarisce quali sono i campanelli d’allarme da non sottovalutare: “Nell’adolescenza i segnali sono i cambiamenti delle abitudini alimentari caratterizzate da una riduzione della quota calorica introdotta giornaliera, un cambiamento che si porta dietro situazioni emotive specifiche come tristezza e isolamento”. Nei bambini, invece: “Il tratto distintivo è la paura di stare male quando si mangia, i più piccoli associano il cibo a mal di stomaco o alla paura di vomitare. Una paura tipica è quella di morire soffocati. C’è poi una perdita di interesse per il cibo. In questo caso non si parla di anoressia classica ma di disturbo evitante restrittivo”. Negli uomini: "Ci si sposta verso il versante vigoressico, ovvero l’ossessione non è legata alla magrezza ma al corpo muscoloso".
I fattori psicologi che portano all’anoressia, l’esperto: “Quasi sempre il dca insorge dopo un trauma”
Leonardo Mendolicchio fa il punto sui fattori psicologici che possono portare allo sviluppo dell’anoressia: “Quasi sempre il dca insorge dopo un trauma. Il cibo è mediatore delle relazioni per cui il rapporto con esso e con il corpo si altera proprio perché si è alterato il modo di approcciarsi agli altri in seguito a un lutto, a un abuso a un atto di bullismo – spiega lo psichiatra – Questi traumi si possono trovare in via diretta nella storia dei ragazzi affetti da un disturbo alimentare o nelle generazioni prima, rintracciabili nelle storie delle mamme o nelle nonne. È una sorta di ereditarietà del trauma. In generale, però, c’è sempre un evento che modifica il rapporto di fiducia tra i pazienti e gli altri, producendo un evento traumatico psichico di natura depressiva, di natura ansiosa o di natura ossessiva che poi si trasforma in un disturbo alimentare”.
Le “almond mum” e l’influenza della famiglia nelle abitudini alimentari
Daria racconta di aver odiato i suoi genitori durante la sua malattia: “Pensavo mi avessero abbandonata in un centro e che loro non fossero in grado di prendersi il mio dolore per proteggermi”. Una volta guarita, però, si è resa conto che è il loro supporto è stato fondamentale. Le figure genitoriali giocano un ruolo chiave nel sostenere i figli affetti da un disturbo alimentare ma, spesso, sono proprio i loro atteggiamenti una delle cause dell’insorgenza della malattia. Su TikTok, per esempio, l’hashtag #almondum (mamme mandorla) rimanda a figure di donne ossessionate dalla magrezza che spingono i figli verso un’alimentazione restrittiva. Per lo psicanalista Mendolicchio: “C’è un interessante studio americano che dice che il primo body shaming che ricevono le ragazze nel mondo occidentale avviene in casa dalle mamme e dai papà. I genitori, anche in buona fede, possono giudicare tantissimo gli atteggiamenti alimentari ed estetici dei propri figli che in alcune età fragili possono fare da detonatore. Bisogna capire se ci sono dinamiche traumatiche all’interno della famiglia e correggerle. La famiglia deve diventare una risorsa supportiva del percorso di terapia dei figli, la guarigione, però, rimane un atto soggettivo e individuale”. Alla domanda se l’anoressia sia una malattia genetica, risponde: “Più che genetica è epigenetica, c’è una combinazione tra fattori biologici e fattori culturali. Non ci si ammala per anoressia perché c’è qualche gene difettoso ma l’interazione gene ambiente in particolare condizioni genetiche o ambientali può favorire o può proteggere”.
Come approcciarsi a chi soffre di anoressia
Sguardi e parole per Daria sono state motivo di sofferenza: “Ricevevo occhiate di disprezzo, di incomprensione, talvolta di pena o di compassione. A questo si aggiungevano le frasi ‘Dai mangia che sei scheletrica. Sei brutta così, eri meglio prima. Non vedi come ti cadono i vestiti addosso. Smettila di fare storie, svegliati che nessuno ti aspetta. Sei irriconoscibile”. Un approccio, questo, sbagliato e controproducente da adottare nei confronti di chi soffre di anoressia. “C’è un modo per interagire con queste ragazze e con questi ragazzi: bisogna evitare sempre di farli sentire giudicati. Vivono del giudizio di loro stessi e hanno già un tribunale interno mostruoso, adottare quel piglio giudicante per scuotere non va bene – puntualizza lo psichiatra Mendolicchio – Andrebbe sempre cercato un contatto più empatico, invece che chiedere ‘quanto hai mangiato’ meglio ‘come stai oggi?’. Portare il discorso solo sul versante dell’alimentazione o del peso è la cosa che fa arrabbiare perché non è quello il tema, concentrarsi solo su quello significa sminuire il loro malessere e questo non funziona mai”.
Il ruolo dei social nell’influenzare l’immagine corporea
Siti pro ana (pro anoressia), bombardamento continuo sulla perfezione, demonizzazione dei corpi non conformi. In che modo i media e la società influenzano la percezione che si ha di sé? “I social enfatizzano il ruolo dell’immagine corporee come emblema delle capacità di relazioni e di comunicazione – precisa Mendolicchio – C’è poi il rischio che questo tipo di immagine generi un effetto emulativo e anche quello andrebbe controllato. Resta il fatto che i social non sono la causa dello sviluppo di un dca ma lo favoriscono e peggiorano”. L’abbondanza di immagini proposte sulle piattaforme social rimandando a un ideale di bellezza irraggiungibile che può innescare un circolo di insoddisfazione e frustrazione. “Racconto spesso questa storia, un giorno una ragazzina entrò nel mio studio dicendomi di aver disinstallato e poi reinstallato l’app di Instagram. Quando le chiesi il perché mi rispose che l’aveva fatto per azzerare l’algoritmo e per smettere di vedere quelle immagini che l’avrebbero riportata nel tunnel” conclude Leonardo Mendolicchio.