Lasciamo perdere le “sparate” del proprietario del Pdl, l’ex premier Silvio Berlusconi, secondo cui lo spread “è solo un imbroglio”: evidentemente all’azionista di maggioranza di Mediaset il credito viene regalato, come in Germania o Olanda (paesi fortunati dove sui titoli di stato a breve termine i tassi sono negativi, ossia sono gli investitori a pagare pur di poter parcheggiare i propri capitali in titoli considerati “sicuri”) e non viene ancorato all’andamento di indici di riferimento e maggiorato di “spread” come capita alla maggioranza degli italiani che provano a chiudere un mutuo o un finanziamento a lungo termine (ammesso e non concesso che riescano ad ottenerlo, visto che come più volte detto le banche stanno riducendo il credito e continueranno a tirare il freno per diversi trimestri, indipendentemente dall’inquilino di Palazzo Chigi). Tra le tante notizie della giornata una mi ha colpito: col collocamento di un’ultima tranche di 234,2 milioni di azioni di AIG, avvenuto in queste ore a 32,5 dollari per azione (lo stesso valore segnalato nella precedente cessione di titoli in borsa, avvenuta l’11 settembre scorso), il Tesoro americano chiude definitivamente uno dei più laboriosi e costosi “bailout” della storia, con un lieto fine per i contribuenti.
Una storia che merita di essere ricordata e al cui confronto i “salvataggi” pubblici e privati visti ancora di recente in Italia (ad esempio quello dell’ex impero Ligresti da parte di Unipol sotto la regia nemmeno troppo occulta del principale creditore di entrambi i gruppi, Mediobanca) appaiono molto più deficitari, addossando invariabilmente l’onere maggiore ai contribuenti o ad azionisti e obbligazionisti di “minoranza”. Negli Usa non funziona così: anche quando lo stato adotta una strategia da “socialismo reale” e, nella sostanza, nazionalizza un’azienda per evitarne il collasso, come con AIG (per il cui salvataggio sono stati impiegati sino a 182,8 miliardi di dollari nel momento di massima esposizione pubblica), si cerca sempre di ripartire oneri e benefici, meriti e colpe il più equamente e correttamente possibile. Così in questo caso ai 22,7 miliardi di dollari che il Tesoro ha ricavato dalla vendita dei propri titoli in borsa vanno sommati i rimborsi delle linee di credito cui AIG ha proceduto in questi anni dismettendo asset importanti.
Una politica che non solo ha visto il gruppo, una volta principale compagnia assicurativa mondiale, cedere o collocare in borsa attivi patrimoniali per circa 65 miliardi (oltre al riacquisto di 5 miliardi di azioni proprie direttamente dal Tesoro), ma anche modificare profondamente e ripetutamente la prima linea manageriale: Maurice “Hank” Greenberg, storico “padre/padrone” di AIG l’aveva portata in borsa, venne sostituito da Martin Sullivan già prima dell’esplodere della crisi finanziaria a causa di uno scandalo contabile, lo stesso Sullivan lasciò la poltrona a Robert Willumstad nel giugno del 2008 una volta che vennero scoperte una serie di perdite finanziarie, infine Willumstad fu costretto a farsi da parte e venne sostituito nel settembre di quello stesso anno da Edward Liddy (che cedette il posto a Robert Benmosche, attuale numero uno, nell’agosto del 2009).
Cambi di management, dismissioni, rimborsi di linee di credito che hanno alla fine abbassato la soglia di pareggio per il Tesoro a soli 28,73 dollari per azione già lo scorso gennaio. Da allora i titoli ancora posseduti sono stati tutti collocati in borsa, in due ultime tranche, a 32,5 dollari: la differenza ha contribuito a generare una plusvalenza di circa 12,5 miliardi di dollari, che andrà a vantaggio dei contribuenti Usa e indirettamente di tutti gli azionisti e obbligazionisti (a Wall Street il titolo azionario è passato da 23,29 agli attuali 33,36 dollari solo nell’ultimo anno, avendo anche toccato a metà ottobre un picco di 37,21 dollari). In Italia la difesa, strenua, degli interessi dei soli azionisti di maggioranza e dei top manager spesso legati all’uno o dall’altro “grande socio” ha unicamente distribuito perdite (sovente anche agli stessi “soci di riferimento”) nel tentativo di non cedere alcun asset, il più delle volte a causa di valutazioni ritenute “non adeguatamente rappresentative del valore del bene”. Ma già, dimenticavo: lo “spread” è un’invenzione, proprio come il “mercato “o la “concorrenza”, concetti alieni alla maggior parte dei leader politici ed economici italiani. Il risultato si vede.