Wimbledon, l’insostenibile leggerezza del re Federer
La perseveranza, scriveva Victor Hugo, è il segreto di tutti i trionfi. È anche il messaggio di chi per 19 anni ha attraversato la porta che conduce alla cattedrale del tennis, il Centrale di Wimbledon. La porta per la gloria che ricorda con i versi incisi di Kipling la strada per diventare uomini (e grandi campioni): incontrare il trionfo e il disastro, e trattare questi due impostori nello stesso modo. Li ha conosciuti entrambi Roger Federer, che battendo un Marin Cilic spinto da una brutta vescica oltre l'orlo della crisi di nervi è diventato il primo giocatore di tutti i tempi a vincere otto volte il torneo più ambito del mondo. Più di Pete Sampras, più di William Renshaw, la star dell'Ottocento, che illuminava la vecchia sede di Worple Road prima dell'avvento dei fratelli Doherty, due metà di uno stesso sogno, cui oggi sono dedicati i cancelli d'ingresso dell'All England Club.
L'insostenibile leggerezza del re
Ha pianto, Federer, quando ha visto le sue due coppie di gemelli schierate in prima fila, per un'occasione speciale, quando ha visto Myla e Rose, le più grandi, insieme a Leo e Lenny, che a tre anni iniziano appena a capire perché il papà stia lì, seduto su una panchina davanti a un prato un po' spelacchiato, a piangere commosso e felice. Esattamente come 14 anni fa. Era il 2003, aveva appena battuto Mark Philippoussis in finale senza concedere palle break e vinto il suo primo Slam. Si era gettato in ginocchio, in lacrime, con le braccia al cielo. Solo dodici mesi prima aveva incontrato lì il disastro, la sconfitta al primo turno contro Marin Cilic. Ne era uscito con gli occhi asciutti e le mani sudate.
Ha attraversato la porta del Centrale 82 volte in carriera, ha giocato più di cento partite all'All England Club come solo Connors in passato, ne ha vinte 91, più di ogni altro. Nel suo giardino è iniziata quella corrispondenza d'amorosi col pubblico di tutto il mondo che lo fa sentire a casa e in casa ad ogni latitudine. Una lunga storia d'amore iniziata il 22 maggio 1999, quando portò al quinto il ceco Jiri Novak, futuro numero 5 del mondo, ma perse pur avendo conquistato un punto in più. “La fondamentale differenza fra Roger Federer e gli altri giocatori” ha scritto Alessandro Baricco su The Catcher, il magazine online della Scuola Holden, “è che gli altri giocano a tennis, lui invece fa una cosa che ha più a che vedere col respirare, o col volo degli uccelli migratori, o col rinforzare del vento la mattina. Qualcosa che è scritto già da un sacco di tempo, inevitabile, nell'andare delle cose. Qualcosa di naturale”.
La magia di Federer: fa sembrare il tennis facile
Lo fa sembrare facile. Chi lo guarda, osserva il talento, le magie, il prestigio, guarda la mano e non vede il lavoro che c'è dietro perché il meccanismo perfetto produca proprio quell'effetto di incantamento. Il Federer di oggi, secondo dopo Borg in tutta l'era Open a vincere Wimbledon senza perdere un set, racchiude, conserva e insieme rappresenta il punto di attivo del Roger bambino, che sognava di fare carriera, non certo di vincere otto Wimbledon, ma aspirava soprattutto a giocare un tennis perfetto. “Quando abbiamo iniziato a lavorare full time nel 2000” raccontava prima delle Olimpiadi di Londra 2012 il suo preparatore, Pierre Paganini, “gli ho proposto un esercizio complesso: ho sentito, mentre lo stava eseguendo, che era perfetto. Alla fine mi ha spiegato perché gli avevo chiesto di farlo. Da atleta, non solo aveva capito come farlo. Aveva anche capito perché. Lui non è uno che consuma. Lui crea”.
Crea da sempre, crea per sempre. Bello come i film di Kubrick, che in un fotogramma congelano il tempo, il tennis di Federer porta addosso le tracce del tempo e al tempo disegna una sfida, geniale come un'ispirazione improvvisa, rapida come un taglio di luce, magica come il passato in una fotografia.
Crea perché, come spiegava qualche tempo fa, la passione alimenta l'ingegno e non sazia. Perché se davvero ti piace fare qualcosa, allora la fai per te stesso, non per compiacere qualcuno. E di modi per farla sempre meglio, di motivazioni per ottenere ancora di più, ce ne sono sempre. Ad ogni età.
I limiti sono solo un'illusione
I limiti si smerigliano in frantumi di specchi, illusioni da cancellare, primati da superare, nuove storie da raccontare. Il diciannovesimo Slam in carriera, alla diciannovesima partecipazione a Wimbledon, chiude quel cerchio di voci, di dubbi, di esuli pensieri iniziato un anno fa. Aveva salvato tre match point proprio a Cilic nei quarti, aveva firmato la sua decima vittoria in rimonta dopo aver perso i primi due set, poi si era arreso a Milos Raonic in semifinale. Aveva regalato ai fotografi una volée alta, sospesa a mezz'aria, fra l'ombra e la luce, la perfetta epifania di una stagione che lì sarebbe finita. L'infortunio al ginocchio, il primo stop lungo della sua carriera, che si era procurato a febbraio nella banalità di un gesto quotidiano mentre preparava il bagno alle sue figlie, si tramuta da ostacolo in opportunità.
Federer aspetta che i tempi siano maturi, lavora sul fisico e non solo, perché è nella cura dei dettagli che si fa la differenza e non c'è età che non ammetta progressi. Si ripresenta a inizio anno, all'Australian Open, in forma scintillante. Reattivo, lucido, convinto dall'amico Ljubicic e da papà Robert ad alleggerire il peso del giudizio, soprattutto il suo, e cercare di spingere libero col rovescio. I venti minuti dal 3-1 Nadal al trionfo nel quinto set restituiscono vibrazioni uniche, di fronte alle quali anche il posto nella storia conquistato a Wimbledon svapora. Perché, rispetto alla conquista così inattesa dell'Australia, questo l'ha davvero fatto sembrare troppo facile.
Oltre le spalle dei giganti
Non è questione degli avversari battuti, del non aver incontrato né Nadal né Murray e Djokovic, infortunati e ancora in cerca della via giusta per ritornare verso le grandi destinazioni. È l'insostenibile superiorità del campione zen, aggressivo e sciolto, concentrato sulla palla. Così ha piegato in stagione Nadal tre volte di fila, come mai gli era riuscito prima in carriera. Così ha vinto 9 partite su 9 contro i top 10 e perso solo due volte da inizio anno, contro il russo Donskoy e il grande amico Tommy Haas, sempre mancando match point a favore.
Ma nel momento di fare la differenza, nei grandi tornei, è tornato il Federer dei primi anni Duemila, il campione che, scriveva Agassi nel suo libro Open, “scende in campo che pare Cary Grant” e “va in un luogo che non riconosco”. Il Federer regale con grandi colpi e senza punti deboli, che gestisce la sua carriera e i momenti importanti del match con la maturità che non teme responsabilità. Il Federer che ha spinto il viaggio iniziato l'8 agosto (ottavo mese dell'anno) 1981 su fino all'ottavo Wimbledon, nell'infinito tendere alla perfezione, nella ricerca di una bellezza kantiana, che piace senza la rappresentazione di uno scopo.
Il Federer che trionfa davanti a una leggenda come Rod Laver, che omaggia il peso della storia, delle leggende che hanno attraversato il prato del Centrale e, spiega, lo hanno reso un giocatore migliore, non ha cercato di ripercorrere le loro orme. Ha cercato quello che cercavano loro. Con la perseveranza che è il perpetuo rinnovarsi del punto d'appoggio verso le grandi destinazioni.