La classe di Sinner: nel momento più alto della sua carriera parla al mondo di Bolelli e Vavassori
Jannik Sinner ha appena battuto Novak Djokovic. È in finale degli Australian Open, la prima della carriera in uno Slam conquistata in maniera netta contro il numero uno al mondo. Lo ha detronizzato e scioccato, cancellandolo in semifinale con una prestazione perfetta sotto il profilo tecnico e psicologico. Ha spezzato lo strapotere del serbo che lì, a Melbourne, è sempre stato di casa anche quando è stato trattato come un pericoloso fuorilegge per quel pasticciaccio brutto del vaccino Covid.
Tutti i riflettori sono puntati sull'azzurro che ha dato una dimostrazione di forza impressionante, ponendo con autorevolezza la propria candidatura alla vittoria del trofeo, rispondendo sul campo ai tanti dubbi sulla maturità agonistica e su quella grandezza che è a un passo, ma perché sia tale e nelle sue mani serve fare il colpo grosso.
Nel momento di maggior fulgore, col pubblico che pende dalle sue labbra e lo osanna, sorride alla sua battuta quando dice "sono le 8.15 in Europa. Buongiorno ragazzi!", Sinner mostra cosa vuol dire avere la testa sulle spalle e i piedi incollati per terra pure se hai sconfitto il più forte al mondo e ti sembra di toccare il cielo con un dito.
È sotto i riflettori ma non si crogiola né si lascia trascinare da quel clima di giubilo. In fondo, se lo facesse, chi gli potrebbe mai muovere obiezioni per quegli istanti di gloria meritati giocando bene? E qui si vede la differenza tra il ‘ragazzo' e l'atleta vero, si capisce che la ridda di ringraziamenti che pronuncia non è solo pronunciata perché così vuole l'etichetta ma si tratta di parole sentite davvero.
"Non solo alla mia famiglia, a tutte le persone vicine a me e a tutti i tifosi italianio. Faccio sempre del mio meglio ma non sono solo qui perché siamo in finale anche nel doppio con Bolelli e Vavassori È bello avere altri italiani, apprezzo il supporto anche dei tifosi qui a Melbourne. Ci vediamo Domenica!".
Resta umile, Sinner. Non è atteggiamento artefatto, è una questione culturale e umana, di buona educazione ricevuta. E non è nemmeno la prima volta che si comporta così. Lo ha fatto quando, poco dopo la conquista della Coppa Davis, volle menzionare Matteo Berrettini per il suo prezioso apporto durante la fantastica avventura della Finals di Malaga.
Lo volle accanto a sé e fu un gesto bellissimo nel momento più difficile per il tennista tormentato dagli infortuni. E fece altrettanto quando, coi compagni di nazionale intorno, esaltò il concetto di "squadra e di famiglia unita che ha lavorato nel migliore dei modi" intorno al coach Volandri