Olimpiadi Parigi 2024

Giorgio Minisini: “La mia carriera è stata una lotta contro un mondo che voleva escludermi perché uomo”

A Fanpage.it Giorgio Minisini ha raccontato la sua scelta di lasciare il nuoto artistico, toccando anche temi come le discriminazioni e la salute mentale degli atleti. Un vero manifesto per chi ama lo sport e tiene al benessere degli sportivi.
A cura di Vito Lamorte
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Giorgio Minisini è stato una delle eccellenze dello sport italiano per molti anni. Un vero e proprio fuoriclasse del nuoto artistico. Ad un certo punto ha capito che lo sport che praticava, e che lo aveva reso famoso in tutto il mondo, andava in contrasto con la sua salute e il benessere: stop, fine delle trasmissioni. Ai Campionati Italiani assoluti del 21 luglio ha detto addio tra gli applausi e i cori del pubblico: non è riuscito a trattenere l'emozione Giorgio, che era entrato in vasca contento e sereno per tutta l'esibizione ma alla fine dell'esibizione al Foro Italico tutto il pubblico si è alzato in piedi per dedicargli un'ovazione e a quel punto si è commosso.

Minisini è stato tra i primi tre uomini al mondo a gareggiare in solitaria in una disciplina che spesso collegata solo all’universo femminile. Romano, nato in una famiglia di atleti (sua madre Susanna De Angelis è allenatrice di nuoto artistico), per lui le vasche sono da sempre il suo habitat: per questo motivo Giorgio è annoverato fra i pionieri del nuoto sincronizzato maschile.

Tra lo stupore di tutti non è stato convocato per i Giochi Olimpici 2024, sia perché la sua specialità non fa parte del programma olimpico e sia per decisione del direttore tecnico della squadra azzurra, Patrizia Giallombardo, che ha scelto di portare in Francia un team interamente femminile. Così è arrivata la decisione di chiudere la carriera a 28 anni: "Anche guardando le gare in questi giorni, per quanto mi dispiaccia non essere a Parigi, non mi manca la disciplina". Minisini ha dovuto lottare tanto per imporsi perché il nuoto artistico veniva, e viene, considerato un ‘sport femminile' ma lui è sempre andato per la sua strada e ha iniziato a vincere nonostante le offese e le discriminazioni che ha vissuto nel suo percorso.

Giorgio ha dovuto rapportarsi con le pressioni con cui convivono gli atleti di alto livello: l'equilibrio è sempre labile, bisogna fare i conti con se stessi e la propria mente. In alcuni casi non è facile riuscire a capire dov'è la strada giusta e se quella che si sta percorrendo lo è, ma Minisini ha rotto le barriere ed ha iniziato a parlare di queste situazioni.

In quattro edizioni dei Mondiali, da Kazan 2015 a Budapest 2022, Minisini ha messo in bacheca 3 ori, 3 argenti e 2 bronzi nel duo misto (con Manila Flamini, Mariangela Perrupato e Lucrezia Ruggiero), un oro e un argento nel solo a Doha 2024. Agli Europei, tra coppia e solo, ha messo in bacheca 3 ori, 5 argenti e un bronzo. Per 3 volte (2017, 2018 e 2022) è stato premiato come atleta dell’anno. Un vero fenomeno.

Giorgio Minisini a Fanpage.it ha raccontato la sua scelta di lasciare il nuoto artistico, toccando anche temi come le discriminazioni e la salute mentale degli atleti.

Com’è la vita di Giorgio Minisini dopo il ritiro?
“Ancora non penso di essere arrivato al dopo ma sono ancora in una fase di transizione perché comunque ho finito di gareggiare il 21 luglio, stiamo ancora nuotando per il Progetto Filippide per una gara ‘inclusiva’ che abbiamo il 14 agosto. Penso che la mia nuova vita inizierà con la nuova stagione. Questa è quella fase in cui sono appena uscito dall’acqua e sto iniziando a ragionare su cosa fare dopo. Anche guardando le gare in questi giorni, per quanto mi dispiaccia non essere a Parigi, non mi manca la disciplina. Mi spiace non esserci ma non vorrei esserci. So di aver fatto la scelta giusta e aspetto di vedere dove mi porta”.

Ha mai pensato di tornare indietro?
"No, io questo pensiero non ce l’ho mai avuto. Una volta presa la decisione sapevo che era la scelta giusta e sono abbastanza sicuro che tra un anno, tra cinque o tra dieci ti risponderei sempre la stessa cosa. Sono completamente convinto della scelta fatta. Non so cosa c’è dopo, quello no, ma non vorrei tornare indietro".

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Cosa vuol dire essere uno dei pionieri del nuoto artistico maschile per uno sport che veniva considerato una prerogativa femminile? Come si lotta contro questi luoghi comuni?
“Io ho iniziato a fare nuoto artistico quando avevo sei anni, era il 2002, e non c’era niente intorno a me. Tutta la mia carriera è stata una lotta continua contro un mondo che cercava di escludermi. Non sono mai riuscito a capire perché si dovesse andare contro questa apertura perché il nuoto artistico ha solo da guadagnare aprendosi agli uomini e a diventare più inclusivo. Non tanto una lotta ma vedere ostacoli senza alcuna ragione. In tanti anni mi sono impegnato per cambiare un mondo che non voleva cambiare, e continua ad essere così. Mi faceva troppo male starci dentro”.

È stato vittima di discriminazioni, perché praticava ‘uno sport femminile’: come hanno influito nel suo percorso?
"Ho sempre capito che le cose per cui io venivo preso in giro non le sentivo mie, che non portavo in acqua. Le prese in giro sull’orientamento sessuale, sulla femminilità… tutte cose che crescendo ho capito che non erano neanche motivo di insulto ma dicevano molto più su chi le faceva e non su di me. Erano tutte cose che fondamentalmente vedevo derivare dall’ignoranza. Ho capito molto presto che per combattere gli stereotipi bisogna fare un lavoro sulla conoscenza, sull’informazione, sul far vedere. Quindi ho capito presto di dovermi mostrare il più possibile per ciò che ero".

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Negli ultimi anni la situazione sta cambiando, ma perché è così difficile parlare di salute mentale nello sport?
"Un atleta mentalmente forte va bene, un atleta che ha bisogno di supporto no. Perché è la risposta più facile. Anche in questi giorni stiamo vedendo dei casi evidenti di come questa cosa sia disfunzionale perché comunque non è vero che un atleta che ha bisogno di un supporto non può raggiungere risultati eccellenti. Simon Biles su tutti l’ha dimostrato. L’atleta non è una macchina, non è un corpo che si muove ma c’è una persona dentro, e considerare quella persona non vuol dire perdere tempo. Nel nostro sport, ad esempio, c’è la paura di perdere tempo. Poi se ne perde un sacco in realtà però c’è sempre la paura che tutto ciò che non è allenamento sia una perdita di tempo. Andare un’ora dallo psicologo è una perdita di tempo, un’ora di riposo è una perdita di tempo, tutto ciò che si fa fuori dalla piscina è una perdita di tempo. Questa è una cultura molto tossica del mio sport e di tanti altre discipline tecniche. C’è un approccio alla deumanizzazione dell’atleta, che deve diventare un corpo esecutore che ripete lo stesso movimento nel modo giusto e il maggior numero di volte possibili. Curarsi della persona dentro questo esecutore diventa complicato e si preferisce non farlo".

E tu come hai vissuto questo tipo di situazione?
"Io sono sempre stato iper competitivo, mi piace gareggiare, mi piace vincere, ma non mi piace che questo possa significare che questo possa portarti a stare male. Io non penso che se fai l’atleta devi accettare ogni tipo di sofferenza perché non penso che ti porta alla vittoria, al risultato o al piacere della competizione. Faticare come un dannato è bello, arrivare a casa distrutto è bello, ma rientrare a casa e sentirsi svuotato, annullato, deumanizzato…nel momento in cui io, in terapia, ho capito di non voler più star male, dopo che per tanto tempo pensavo di meritarlo, allora ho capito che dovevo allontanarmi da un ambiente del genere. Dal momento in cui ogni atleta è sostituibile, e noi ne siamo consapevoli, ma quando ogni debolezza può essere causa della tua esclusione, tu annulli tutte le tue debolezze e quando ti accorgi di averne una preferisci annullarti come persona, andare avanti meccanicamente. Ti ripeti ‘sto male, continuerò a stare male fino alla gara e poi vediamo’. Io ho visto questa cosa in tante persone e in alcuni si è trasformata in patologia. Quando sono entrato in squadra ho detto ‘Ok, posso restituire qualcosa non solo come atleta’. Posso dialogare con le ragazze e farle sentire delle persone, convincerle che esporre i propri problemi non è sbagliato. Posso parlare con gli allenatori e dirgli che questa cosa non funziona nel modo in cui voi sperate perché dietro c’è questa cosa qua. Sono entrato in squadra e ho detto ‘Ragazze, c’è un modo diverso per fare questa cosa. È più difficile ma se lo facciamo tutti ci guadagniamo e anche i risultati saranno migliori, come dimostra Simon Biles’. Ma era troppo difficile".

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Si è parlato tanto delle parole di Benedetta Pilato dopo il quarto posto ai Giochi e tutto il dibattito che ne è seguito: crede ci sia un problema di cultura sportiva nel nostro paese?
"Siamo arrivati ad un momento in cui c’è grande consapevolezza di questi argomenti ed è stato bello vedere la reazione a questa scena. Io penso che vent’anni fa sarebbe stato l’opposto. Tutti vogliono vincere, a tutti piace vincere, ma a quei livelli può essere anche solo un’onda che ti arriva nel momento sbagliato, un momento di sfortuna o anche di performance. Magari quel giorno avevi l’1% in meno ed è andata così. Tu arrivi 4°per un centesimo, se ti strappi i capelli o sei contento non cambia niente. Sei sempre quarto. Anzi, se a te rimane questo rimorso dentro magari ti alleni per quattro anni con la paura di non superarlo ma se tu sei contento, anche dell’esperienza fatta, hai altro tempo per riprovarci. Per me Benedetta è stata incredibilmente positiva. Un esempio. Un ragazzo o una ragazza di 12 anni che l’ha vista nuotare alle Olimpiadi e vede questo tipo di reazione dopo che è arrivata a tanto così dal tuo obiettivo capisce che la tua vita non finisce quel giorno".

Si è dato una risposta sulla sua esclusione dalle Olimpiadi? 
"Nel momento in cui mi è stata comunicata l'esclusione da un lato ho pensato ‘vabbè, non è possibile che siamo arrivati a tanto' ma dall'altro come atleta non voglio parlare. È assurdo. La persona che è entrata al posto mio non l'hanno fatta nuotare in questi mesi, non l'hanno scelto per utilizzarla ma hanno voluto togliere me. E a me dispiace dire questa cosa. Susanna (Pedotti), la mia doppista, io credo che sia una delle atlete più forti d'Italia e non le è stato ancora riconosciuto il giusto valore ma penso che potesse essere parte delle otto, far parte della squadra. Io so che non ha avuto questa opportunità perché, in realtà, la scelta non è stata fatta per avere una persona da inserire ma per togliere quello che era diventato un problema. Io ho sempre avuto un pensiero per i miei compagni, spero che possano godersi questa esperienza al massimo perché penso che potenzialmente siano la squadra più forte del mondo e che hanno ottenuto risultati incredibili nonostante alcune dinamiche. Spero tanto che possano vedere il loro valore riconosciuto e dare il massimo nonostante tutto ciò che li circonda".

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