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Mattia Pasini: “Dopo la morte di Simoncelli pensavo di smettere, noi piloti siamo fragili come mosche”

Intervista a Mattia Pasini, ex pilota del Motomondiale e oggi commentatore della MotoGP su Sky. Dal rapporto con Simoncelli alla nuova vita da wild card e imprenditore: “Ho inventato un simulatore”.
A cura di Fabio Fagnani
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Mattia Pasini è un nome che risuona con forza nel panorama motociclistico italiano. Sin da giovane, ha dimostrato una straordinaria inclinazione per le due ruote, che lo ha portato a intraprendere una carriera costellata di sfide e successi, di cadute, incidenti e problematiche. Dalle prime gare nelle competizioni minori fino a diventare uno dei protagonisti della Moto2, la storia di Pasini è quella di un pilota che ha saputo affrontare gli alti e bassi dello sport con tenacia e passione.

Come va la vita di Mattia Pasini adesso?
La mia vita negli ultimi anni è cambiata abbastanza, diciamo dal periodo Covid in avanti. Sono commentatore per Sky, a tempo pieno, sono in questa famiglia bellissima e mi trovo veramente bene, ci divertiamo, cerco sempre di dare un punto di vista diverso, essendo stato pilota, e cerco di trasmetterlo alle persone a casa. Oltre a commentare le gare, a girare come wild card, ho fondato un'azienda che si occupa di simulatori di guida che si chiama Res-Teck. È nato come un gioco e oggi abbiamo un business di livello internazionale, questa cosa qui mi rende parecchio orgoglioso perché diciamo che è partita proprio da un foglio bianco, da un'idea e dopo tre anni siamo a livelli altissimi. Quindi la mia vita si divide tra il commentatore, l'azienda, preparare il team, montare la moto, andare a fare i test, caricare e scaricare il camion, sono cose che faccio tutte io, insieme a questo ci metto anche la preparazione atletica che comunque va fatta anche se fai due gare all'anno, perché comunque è una parte fondamentale per guidare la moto al 100%. Quindi diciamo che Mattia Pasini adesso sta bene, sono felice, anche se veramente molto molto molto molto molto moltissimo impegnato.

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Raccontami delle tue avventure come wild card?
A un certo punto è come se avessi creato il mio team indipendente per partecipare alle tappe del mondiale. Facciamo due o tre wild card all'anno, insieme ai ragazzi del team che mi danno una mano. Noi, il furgoncino, la mia moto di Moto2 comprata qualche anno fa e via. Un po' come si faceva una volta, andiamo a fare le gare con l'essenziale e comunque ci siamo tolti delle belle soddisfazioni. È sempre più difficile fare poche gare all'anno perché il livello è altissimo, mentre i dati e le informazioni raccolte sono ben poche e hai un percorso di lavoro e di preparazione fisica diverso. Non è semplice prepararsi solo per poche gare l'anno, ma con la stessa disciplina, rigore e attenzione come si si facesse l'intera stagione. Anche perché poi, oggi come oggi, con questo format, sbagli un turno il venerdì e hai quasi buttato via il weekend.

Come ti immagini tra qualche anno?
La moto è il mio amore, ma sto iniziando a diventare grande, quindi sto cercando di trovare anche una strada per il futuro, perché comunque mi sono sempre detto che a 40 anni vorrei smettere di andare in moto a questi livelli. E quaranta li faccio il prossimo anno. E poi fare le wild card è dispendioso.

Più o meno qual è il costo?
Considerando viaggio, spostamenti, logistica? Senza considerare i costi, diciamo così, di moto, tra di ricambi, carenature, cerchi, attrezzatura, termocoperte, insomma senza contare le cose più banali, siamo intorno a una cinquantina di mila euro, più o meno, a gara. E un team che fa la Moto2 ha dei budget intorno, anzi superiore, al milione. Poi dipende da quale team, ma io penso che almeno ci vogliono dai due ai tre milioni per coprire una stagione del Mondiale.

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Parlami della tua azienda, la Res-Teck.
Nella mia cerchia di amici, abbiamo sempre giocato ai videogiochi di corse, anche perché da pilota, soprattutto d'inverno, devi passare il tempo in qualche modo e poi, come ho detto prima, c'è stata la pandemia e di conseguenza la quarantena. E abbiamo giocato tanto,  ci siamo sfidati, ma sempre col volante per la Playstation. Poi succede che mi mandano a casa, da provare, un simulatore abbastanza serio, anzi, quasi professionale e ho iniziato a giocare. Mi sono appassionato da matti, perché non era più un gioco arcade come quelli che tutti pensano, ma si passa proprio a una simulazione vera e propria, quindi sia nella guida che nella messa a punto che anche con i feedback che hai dalla macchina. Da lì mi sono messo a cercare un simulatore, ma non ho trovato quello che volevo. Allora, insieme a un mio amico, da sempre disegnatore, cioè Massimo Tamburini, e gli ho detto ma perché non facciamo un simulatore? Ne abbiamo fatti una ventina e gli abbiamo venduti tra i nostri amici. Chi meglio di loro possono darci un vero feedback? Cavolo, da lì ci è esploso un po' questo mercato ed è diventata comunque un'azienda reale che ci dà tanti pensieri ma anche tantissime soddisfazioni perché comunque  il mercato del gaming è molto vasto e complesso.

Passiamo a Mattia da giovane, che tipo eri?
Il mio percorso è stato un percorso in realtà molto complicato, diciamo che io penso che sono nato per fare il pilota, non è una passione che ho acquisito, dato che comunque mio babbo era un pilota e ha sempre corso. La passione in famiglia è sempre stata potente e  me l'hanno trasmessa ma proprio a livello genetico. La prima minimoto me l'ha regalata mio nonno quando ho compiuto tre anni. Da quel momento, ho iniziato a correre in minimoto. Ho dovuto aspettare un po' a fare avvero le gare perché mia mamma non voleva che io e il mio babbo corressimo nello stesso momento e quindi quando ha smesso papà, ho iniziato io. Nel 96 ho esordito nel campionato italiano e ho vinto all'esordio. C'era Poggiali, c'era il Sic, eravamo in tanti del nostro gruppo tra San Marino e la Romagna. Poi l'anno dopo ho fatto vice campione europeo, nel 98 ho vinto le selezioni per fare le finali del campionato italiano di minimoto, ma non ci andai mai perché ad agosto, mentre mi allenavo con la moto da cross, ho avuto un incidente davvero brutto. I dottori mi dicevano che non sarei mai tornato a correre e forse non sarei stato in grado mai più di guidare una moto. Avevo una lesione molto grossa, il braccio destro era completamente paralizzato. In quel momento ho trovato la forza e la determinazione che mi ha fatto maturare e mi ha reso ancora più chiaro quello che era il mio obiettivo. Qualche tempo dopo ho fatto terzo nel campionato italiano e terzo nell'europeo e mi sono guadagnato le attenzioni di Lucio Cecchinello. Lucio mi cambiato la vita, facendomi esordire  nel 2004 nel mondiale.

Il tuo infortunio ti ha condizionato?
Condizionato… sicuramente. Fisicamente il mio corpo ha subito un deficit, però mi ha dato anche una determinazione che ha compensato quel problema lì. Se questo doveva essere il mio percorso lo rispetto. Sicuramente mi è capitato di maledire quel giorno, ma doveva andare così. Lo accetto.

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Hai un rammarico sportivo?
Sì, quello di non essere mai diventato campione del mondo. La mia carriera si è complicata stagione dopo stagione nonostante fossi veloce. Nel 2006 sono stato in un team in cui sarei dovuto essere la prima guida, poi è arrivato Alvaro Bautista ed essendo un team spagnolo hanno dato più valore a lui. Nel 2007 sono andato nel team Polaris nel quale ero nettamente il più forte, ho fatto 12 pole position su 16, ho vinto quattro gare, ma nei primi gran premi mi si è rotta la moto sei volte. Quel mondiale lì mi è rimasto indigesto. Poi mi sono trovato con dei fallimenti di alcune squadre e non potevo trovare una nuova sella. È stata davvero durissima, eppure i risultati c'erano. Poi, certo, alcuni errori li ho commessi anche io. Pensa che in quegli anni avevo firmato un precontratto con Pramac. Campinoti mi aveva chiamato in corso della stagione per andare in MotoGP mentre Kallio avrebbe sostituito Stoner nel team ufficiale. E nonostante tutto, rifiutai la proposta perché pensavo di potermi giocare il titolo con il team in 250 nonostante i problemi economici che c'erano stati. E poi è arrivata la Moto2. Per me quella categoria è stato il tallone d'Achille. Infortuni, complicazioni, difficoltà, navigavo per la top ten. E da lì è iniziato il mio incubo tra wild card, contratti precari e team poco organizzati. Mettiamoci anche che poi nel 2011 è morto Marco [Simoncelli, nda] e ho pensato di smettere. Non ne valeva più la pena e l'ho pensato per sei mesi buoni. Correre in queste condizioni non ha senso, sei troppo grande per correre per forza, devi correre se trovi qualcuno che crede in te. Poi sono tornato sui miei passi e ho ripreso con le corse, ma sono stato davvero vicino a smettere. Ma non andavo. Ho fatto delle wild card con Gresini e poi sono rinato con Italtrans. Insieme a Germano, il proprietario del team, abbiamo iniziato a collaborare e nel 2018 ci siamo giocati per una parte della stagione il titolo. Abbiamo vinto al Mugello e quella vittoria lì è stata un bell'orgasmo con un ultimo giro incredibile.

È la tua pista preferita?
Il Mugello non è che non sia la mia pista preferita. È che io reputo il Mugello il miglior circuito che esista. È diverso. Anche perché il Mugello è una pista con tante curve a destra e io, per via del mio infortunio, le soffro. Eppure non c'è circuito più perfetto del Mugello.

Sei sempre stato veloce, poi a un certo punto qualcosa non ha più funzionato.
Nel 2005 sono stato velocissimo subito dai test e devo dire che è stata un'annata in cui sono cresciuto, sono maturato, mi sentivo veloce. Poi è arrivata la prima vittoria in Cina, bellissima, e da lì comunque quell'anno abbiamo fatto una gran stagione, anche se poi la gara dopo in Francia, che ero molto veloce, mi sono rotto subito il polso.

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Com'è stato vincere la prima gara mondiale?
Il primo pensiero, dopo la bandiera scacchi, è andato a quel dottore che quando sono arrivato in ospedale, dopo l'incidente al mio braccio, mi aveva detto senza giri di parole che io non avrei più potuto correre in moto. Avevo tredici anni, mi ha distrutto, ma forse mi ha anche stimolato a dare tutto. Il primo pensiero è stato proprio "Cazzo, vedi, avevo ragione, ce l'ho fatta, sono arrivato, il primo passo l'ho fatto, sono arrivato al mondiale, ho vinto la mia prima gara". E già correre al mondiale bastava e avanzava, ma non mi ero fermato a questo, avevo vinto nonostante il mio infortunio. Poi ho pensato alla mia famiglia che mi è sempre stata vicino, che ha sofferto con me, che ha fatto sacrifici. E anche tutti i sacrifici che ho fatto io. Da ragazzino i tuoi amici vanno a ballare, vanno a divertirsi e te invece no. Hai un obiettivo e vivi per quello. Non esiste altro. E la prima vittoria mi è servita per dire "Ok, sono un pilota vero".

E quell'anno hai chiuso quarto, davanti al Sic. Che rapporto avevate?
Marco fa parte di me da sempre. Abbiamo iniziato a guidare insieme, è stato amico, avversario, compagno di allenamenti. Marco fa parte della mia vita. E quando accadono cose come quelle di Luca [Salvadori, nda], ci pensi. Tutti noi piloti siamo consapevoli del rischio che corriamo e spesso il pubblico non si rende conto di ciò che si rischia in pista e banalizza ciò che facciamo. Per quanto la sicurezza abbia fatto passi da gigante, andiamo comunque a 300 orari e in quel caso sei fragile come una mosca. E comunque, a Marco ci penso sempre. Sarebbe impossibile non pensarci, è stato parte della mia vita e continuerà ad esserci.

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Che effetto di fa vedere là in alto Pecco Bagnaia che conosci da quando era in Moto3, avete corso contro in Moto2 e vi conoscete bene?
Io sono un grande tifoso di Pecco. Lo stimo moltissimo come persona e come pilota. È intelligente e mi ha impressionato tantissimo e non ce ne sono tanti che mi hanno lasciato di stucco durante la mia carriera. È là in alto e se lo merita. Non basta il talento per essere campioni, non basta la velocità, non basta il lavoro, non basta il sacrificio, non basta la strategia. Ci vogliono tutte queste qualità insieme. Bagnaia sotto pressione tira fuori il meglio e questo è il vero pregio di Bagnaia.

Quest'anno però ha commesso qualche errore di troppo.
A quei livelli, ci può stare. Martin e Bagnaia sono fortissimi, l'asticella è sempre più alta e a volte per alzarla di più, sbagli. Bagnaia è consapevole degli errori che ha commesso. Martin è stato bravo a non farsi trovare in quei momenti dove può capitare l'incidente come accaduto a Bagnaia con Marc e Alex Marquez o con Binder. Va dato merito a Jorge che nonostante sia pieno di rabbia e frustrazione per non essere stato scelto da Ducati Factory continua a martellare, sapendo che il prossimo anno sarà da un'altra parte. Non è per niente facile rimanere concentrati. A me capitò in passato, è debilitante psicologicamente non sapere bene perché il team non ti vuole più o se non hai una sella per il futuro.

Ti sei dato una risposta sulla scelta di Ducati?
Non voglio commentare. Penso che Ducati abbia le sue ragioni. Anche perché Marquez ha vinto otto mondiali, non è che è uno sprovveduto, però facendo questa scelta è andata un po' contro lo stile degli ultimi anni che prevedeva mettere sotto contratto i talenti e fargli crescere. Per prendere Marc hanno lasciato andare Martin, Bastianini e Bezzecchi. Hanno rinforzato Aprilia e KTM per avere Marc che il prossimo anno avrà 32 anni. E non è detto che con Marc invece di Jorge tu abbia rinforzato il team ufficiale. Rispetto la loro scelta e penso anche che Pecco sia l'unico che può sopportare uno come Marc Marquez nel box.

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