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Danilo Petrucci rivive l’incidente: “Come cadere dal quarto piano, la moto mi ha salvato le gambe”

Intervista a Danilo Petrucci, pilota con una lunga esperienza nel motociclismo tra MotoGP e Superbike, reduce da un terribile incidente: “Ho aperto gli occhi e sono stato felice di essere ancora vivo”.
A cura di Fabio Fagnani
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Spesso non gli viene riconosciuto il grande talento che ha. Spesso gli appassionati di Motorsport lo vedono solo come quello che ha lavorato sodo, nient’altro. Spesso viene etichettato come quello che non ce l’ha fatta e invece, Danilo Petrucci, ce l’ha fatta eccome. Petrux – così viene soprannominato – ha iniziato la sua carriera in MotoGP nel 2012, aveva 21 anni e pochissima esperienza alle spalle. Ha vinto due gare, tra cui una epica al Mugello nel 2019, poi è passato al Campionato MotoAmerica, chiudendo secondo dopo un duello epico contro Jake Gagne, specialista della categoria. Ha fatto la Dakar, tornando alle sue origini da fuoristradista, conquistando una tappa, diventando l’unico pilota a vincere una gara in MotoGP e una tappa nella Dakar. Oggi è alla seconda stagione con il team Barni Spark in Superbike. Qualche settimana fa è stato vittima di un incidente con la moto da cross durante una sessione di allenamento.

Come stai?
Sto molto meglio. Sono rientrato in palestra, riesco a fare qualcosa. Certo, devo ancora resettare e mettere dritta la mandibola e poi quotidianamente lavoriamo sulla clavicola e la scapola. La muovo, ma non posso ruotarla perché è rotta. Mi piacerebbe risalire in moto per i prossimi test. Forse sono troppo positivo, ma voglio tornare in fretta.

Hai fatto tanti incidenti, vista anche la longevità della tua carriera.  Ne feci uno brutto negli Stati Uniti all’AMA Superbike, ma questa volta sui social ti ho visto molto provato, spaventato: è stato l’incidente più brutto della tua vita?
Sì, in America è stato violentissimo. Avrò fatto venti metri rotolando sull’asfalto e poi altre decine di metri di scivolata. Ma lì non ho avuto nemmeno il tempo per pensare. Ero dentro una centrifuga. Questa volta invece sono caduto dall’alto, come cadere dal quarto piano. Io non mi ricordo nulla. Mi sono risvegliato con tutta la gente intorno. Per fortuna la moto ha attutito il colpo e mi ha salvato le gambe. Però, ho avuto la lucidità di avere paura. Questa volta è stato tutto fermo, non veloce. Ho avuto il tempo di capire che stava andando male. Ho avuto paura, anche perché ho capito che avevo sbagliato qualcosa e ho dovuto aspettare di atterrare. Quando ho aperto gli occhi mi ricordo di essere stato subito felice perché ero vivo e mi funzionavano le gambe. Quando ti accadono certe cose apprezzi di più le cose che dai per scontato.

Molti si chiedono, ma perché i piloti si fanno male in allenamento? Perché rischiano anche in quel momento? Dovizioso, Biaggi, Valentino, tu e tantissimi altri, perché rischiare off season oppure tra un gran premio e l’altro?
Una volta Stoner, eravamo a un test, mi disse che lui si era ritirato perché a lui sin da bambino piaceva andare in moto e una volta arrivato in MotoGP, mi sono reso conto che sulla moto ci stavo pochissimo. Qualche weekend, test durante l’anno e basta. Tutto il resto del tempo era senza la moto. Quindi un pilota cerca di andare in moto, qualsiasi mezzo sia. Io nasco crossista e quindi è normale che quando posso vado in moto per tenere un manubrio tra le mani e non perdere dimestichezza, abilità, riflessi. Quindi è utilissimo, ma come tutto quello che facciamo ha una componente di rischio.

Poi, il fatto di andare veloce anche nel cross ti stimolava a migliorare ancora.
Certo, siamo piloti. Mi comportavo come fossi un pilota da cross del mondiale. Poi quando ho visto che giravo a pochissimi secondi dai migliori crossisti del mondo mi gasavo. E da lì, rischi di più e può capitare che ti fai male.

Tu sei partito proprio dal cross, facevi il campionato italiano, come mai sei passato alla pista, alla velocità?
Era un sogno o forse una follia, ma anche se eravamo crossisti il fascino della pista era presente dentro me e mio papà. Quando ci siamo decisi a provare sono andato subito forte e in maniera innata. La Federazione si accorge di me e nel 2008 mi fa entrare nel team Italia. Ero tutto istinto e talento perché non avevo mai provato prima le moto da circuito. Ho imparato direttamente nei campionati. E all’età di 21 anni sono sbarcato in MotoGP. C’erano tutti: Valentino Rossi, Jorge Lorenzo, Dani Pedrosa, Stoner e Dovizioso.

Qual è stata la cosa più difficile da imparare dal cross alla velocità?
Piegare. Nel cross pieghi solo nel canale di terra. Le moto da corsa invece sono da guidare con la spalla per terra. Io sono sempre stato un grande frenatore, anche perché sono grosso, massiccio, ma fare le curve è sempre stato difficile.

Danilo Petrucci in pista nella Superbike.
Danilo Petrucci in pista nella Superbike.

Che idea ti sei fatto del livello del mondiale Superbike?
Per quello che riguarda i primissimi come Jonathan Rea, Toprak Razgatlioglu e anche Alvaro Bautista, sono piloti che qualitativamente potrebbero stare in MotoGP. Alvaro, come mai, viene da lì e ha vinto due mondiali. Spesso si sottostimano, ma il talento c’è. Poi sicuramente in MotoGP ci sono dei fenomeni. Le moto comunque fanno la differenza. Nel mondiale dei prototipi capita che ci siano dieci piloti in due decimi, in Superbike non succede così spesso. Però, dipende anche dai circuiti. La prima gara in Phillip Island sono saliti sul podio in sette piloti diversi nelle tre gare. C’è grande competizione.

Stiamo tornando a un’era d’oro della Superbike? Anche grazie ai tanti italiani che corrono in questa categoria come te, Iannone, Locatelli, Bulega.
La Superbike è bella. Forse, è più per gli appassionati e meno per i tifosi della domenica, quelli generalisti. È una categoria meno mainstream e forse anche il fatto che ci manca un po’ di promozione. Dorna ha fatto un lavoro incredibile in questi anni, ma serve diversificare. Anche perché la Superbike a livello di spettacolo non è seconda a nessuno. Pensare alla trentina di sorpassi tra Alvaro Bautista e Toprak Razgatlioglu a Jerez. Pazzesco. E poi in Superbike si può sperimentare: fare le gare al tramonto, andare su circuiti locali, non enormi, più caratteristici, più vicini alla gente, a portata da appassionato.

Il team Barni Spark vince il suo primo Gran Premio ad Assen con Spinelli e non con Petrucci. Hai rosicato?
No, no (ride). Sono molto felice per il team, per Marco Barnabò – il proprietario della squadra – e per Nicholas, il giovane pilota che ha vinto. È sembrata la trama di un film. Io quasi mi ammazzo, il team prende un giovane che non aveva mai guidato quella moto per sostituirmi in quella gara e lui vince la gara. Però, io non penso che avrei messo le intermedie e quindi io non avrei potuto vincere. Quello che ha fatto Nicholas è stato qualcosa di speciale e mi ha tolto un grosso peso, adesso il team Barni Spark ha vinto il primo Gran Premio.

Chi era il tuo idolo da piccolo?
Loris Capirossi. Mio papà faceva l’autista di Loris e io ero suo tifoso. Capirossi ha iniziato a correre per un team di Terni, il team Pileri. Il mio sogno era diventare come Loris. Da sempre volevo correre nel mondiale per essere come lui. Poi, certo, c’è stato Valentino. Sono i due piloti che ho ammirato di più. Una delle prime foto che ho – avevo un anno – è con Loris, Gresini e Ueda, che mi tengono in braccio.

Danilo Petrucci dopo il trionfo al Mugello nel 2019 in MotoGP.
Danilo Petrucci dopo il trionfo al Mugello nel 2019 in MotoGP.

Siamo nei giorni del Mugello, quella vittoria contro Dovizioso e Marquez è il punto più alto della tua carriera?
Dopo il traguardo non ho capito più nulla, sono stato invaso da mille persone, emozioni, sguardi. È stata una bellissima gara, tosta, un grande duello. Il Mugello è il Mugello, ma personalmente credo che il punto più alto sia stata la vittoria di Le Mans. Era l’anno del Covid e quindi è stato un momento bello per me e per la mia famiglia. Dopo la vittoria sono tornato a casa e ho festeggiato con gli amici e la famiglia. Volevo quella vittoria proprio per dimostrare che il Mugello non era stato solo un exploit di un giorno, me la sono goduta come vittoria.

Chi è la prima persona che chiami dopo una vittoria o dopo un incidente?
Mamma. Sempre. Ma poi anche papà e mio fratello. Sono loro le tre persone che mi stanno dietro da quando sono piccolo e hanno fatto un sacco di sacrifici per farmi fare questa carriera. Mio papà mi portava alle gare in furgone e dormiva per terra per farmi riposare e concentrare per la gara del giorno dopo. Sono cose che non dimentichi.

Ti emoziona ancora questa cosa?
Sì, certo. Ricordarlo mi dà tanta forza perché quando cresci e ci sono momenti complicati o faticosi, poi penso a mio papà che dormiva per terra nel furgone o faceva le notti per portarmi ai circuiti. Gli sarò sempre grato per quello che hanno fatto per me.

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