Carlo Pernat: “Vidi Valentino Rossi e pensai fosse pazzo. Quando guardo un pilota cerco tre cose”
Carlo Pernat è una figura mitologica del motomondiale. Un decano, un monumento. Per molti un mito, per altri un guru, rinomato per la sua passione per il divertimento, per i vizi e poi – ultimo, ma non per importanza – per le corse. Oggi è manager di Enea Bastianini, campione del mondo di Moto2 nel 2020, in sella alla Ducati del team ufficiale insieme a Francesco Bagnaia, ma Carlo ha già fatto capire in più di un’occasione che potrebbe cambiare sella il prossimo anno, ma non è il tema di questa nostra chiacchierata esclusiva per Fanpage.it. Forse, è ancora presto per esporsi troppo visto il recente podio del riminese nel Gran Premio del Portogallo.
Carlo, quando ti sei appassionato alle moto com’è scoccata la scintilla?
«Non è stata una gran scintilla perché a momenti mi ammazzo. Sono nato con questa passione sin da bambino e da ragazzetto con il primo motorino ho sbagliato una curva e sono finito dritto dentro un negozio di frutta e verdura. Mi guardavo, ero tutto rosso, pensavo fosse sangue e invece erano angurie e pomodori. Gran spavento, ma mi è andata bene. Volevo fare il pilota, ma quella lì è stata una bella sberla. Volevo stare in questo mondo e allora ho pensato di farlo da dietro le quinte, fuori dalla pista».
Dopo 45 anni nel mondo delle due ruote, la passione è la stessa oppure è diventato “solo” un lavoro?
«La passione è la stessa, dal giorno uno ad oggi. Il mio amore per questo sport non è calato nemmeno dell’1%. Io non vedo l’ora di partire, di vedere le gare, di scoprire talenti, di aiutarli a vincere. Questo mi da la voglia, la fame, di continuare, stagione dopo stagione. Questo è un lavoro di relazioni, non è facile da insegnare anche se ogni tanto me lo chiedono. Masterclass, corsi, ma conta tanto il carattere e l’attitudine».
Il mondo è cambiato nel frattempo.
«Decisamente. Anche questo sport è cambiato. Pensiamo solo ai calendari. Una volta c’erano dodici, massimo quattordici tappe. Adesso sono una ventina, molte in giro per il mondo, tante nel sud est asiatico. Insomma, è una fatica. Se non ci fosse la passione, stai a casa».
E cos’altro è cambiato?
«La comunicazione è diventata molto più controllata, rigida, fredda. I piloti sono chiusi nei loro caravan, nei motorhome. Un sistema più asettico, oggi sei sulla pay tv, non sei in chiaro. Una volta andavamo insieme a cena con i giornalisti, con i piloti, si andava in giro insieme, ci si divertiva. È diventato uno show in stile Formula 1. Questa è la cosa che mi piace meno e mi mancano quei tempi. Una volta volevi il pezzo sulla Gazzetta, sul Corriere della Sera. Avevi interesse che si parlasse di te sulla carta. Oggi vale di più una pagina social di un giornale».
Come si gestisce un pilota?
«Devi essere camaleontico, adeguarti al pilota che gestisci. Io mi sono sempre allineato rispetto a chi avessi davanti. Io ho gestito contemporaneamente, mentre erano in categorie diverse, Biaggi e Rossi. Tu devi essere empatico, a volte accomodante».
Al primo sguardo, chi ti ha rapito?
«Evidente che Valentino sia stato un pilota incredibile. La prima volta che l’ho visto correre mi son detto questo o è un pazzo o è un fenomeno. Mentre, se vuoi sapere un pilota che poteva essere un fuoriclasse e non lo è stato, secondo me Stefano Perugini. Aveva un talento eccezionale e non è riuscito a fare quello che per me avrebbe dovuto fare. Rossi e Perugini sono l’uno l’opposto dell’altro, ma entrambi con un talento incredibile».
E invece chi avresti voluto scoprire tu e non ci sei riuscito?
«Io l’avevo visto, ma non sono riuscito a prenderlo e ho avuto un grande rimpianto. Era il 1992 e non sono riuscito a gestire Marco Melandri. Ogni tanto gliel’ho detto, andava forte, ci saremmo divertiti».
Oggi cosa guardi per scovare un talento?
«Ci sono tre cose. La prima è il tempo che ci impiega a percorrere una curva. Cronometro alla mano, quello è un dato oggettivo. In quel momento capisci la guida. La seconda cosa è la testa. Se è capace di mantenere la concentrazione, la costanza, se rispetta se stesso e chi lavora con noi. La terza è la famiglia. A volte è determinante. Se funziona, il pilota è sereno e funziona in pista, altrimenti può fare danni enormi».
C’è un aneddoto che gira su te e Valentino Rossi che riguarda una pubblicità da cui è scappato. Me la racconti bene.
«Certo! Era il 1997, eravamo con l’Aprilia, e avevamo preso un regista americano per girare uno spot. Il regista era uno un po’ pretenzioso, ma che cercava di fare bene il suo lavoro e gli ha fatto rifare le scene centinaia di volte. E poi ci era costato un occhio della testa Valentino non ne poteva più. Allora lo chiamai per dirgli di resistere e quando l’ho sentito al telefono lui era a Pesaro. Era tornato a casa senza dire nulla a nessuno. Il marketing me ne ha dette di ogni, ma per fortuna che Rossi oltre a essere così, era un vincente».
Cosa ne pensi degli uffici stampa a proposito della gestione comunicativa.
«Sono un po’ la rovina se devo dirla tutta. Io non li capisco. Fossi il loro capo prenderei solo persone simpatiche. Invece, incasellano il pilota. Devono seguire uno spartito, dire le solite cose e via nell’altra pista. Le pubbliche relazioni non sono fredde, ma devono tornare a essere come le facevamo noi: vino con pane e salame.
Qual è la cosa più assurda che hai fatto in questi anni? Nel tuo libro “Belin che Paddock” ne hai raccontate tante, scegline una.
«Ne ho fatte tante di cazzate(ride), è vero. Ti racconto questa, erano gli anni Ottanta. Insomma, dovevamo prendere uno sponsor, volevamo la Lucky Strike. Il punto è come. Allora, il direttore Carlo Castiglioni mi diede un budget elevato e mi disse “Arrangiati. Fai di tutto per portarlo da noi”. Dovevo convincere il direttore marketing dell’azienda a sponsorizzarci. Ci mettemmo d’accordo per vederci, andai a Parigi, eravamo al Crazy Horse. Portail il direttore al locale, che per chi non lo sapesse è abbastanza erotico come posto e avevo il budget anche per prendere due belle signorine per la notte. Ci divertimmo, champagne e quant’altro. Solo che il direttore marketing si ubriacò. A un certo momento arriva il taxi che ci porta in hotel, ci dividiamo. Io vado in stanza con una signorina, lui va con l’altra. Io faccio tutto quello che dovevo fare. La mattina dopo scende l’altra signorina che mi diede i soldi indietro perché, lei mi dice, non abbiamo fatto niente, mi ringrazia e se ne va. Inizio a pensare che l’affare possa saltare. Poco dopo scende il direttore marketing che per evitare di fare brutta figura mi racconta di aver passato una nottata incredibile, meravigliosa, fuoco e fiamme. Tiro un sospiro di sollievo e abbiamo preso il budget di Lucky Strike per tre anni».
Torniamo al 2024: chi si gioca il mondiale?
«Bagnaia sicuramente. È fortissimo, nonostante tutto. Martin non si può non mettere. Metto in lotta Bastianini e un filo indietro Binder e Marc Marquez. Se la giocano. Sarà dura».
Bastianini è andato bene in Portogallo, ce lo aspettiamo forte anche in Texas?
«È la miglior forma di Enea che ho mai avuto. Mi aspetto che si possa giocare tutte le gare da qui alla fine. Il Mondiale se lo gioca sicuramente fino alla fine».