Maurizio Fondriest oggi costruisce bici e ha un solo rimpianto: “L’Amstel Gold Race 1991, un furto”
Il 28 agosto 1988, in Belgio, a Renaix, Maurizio Fondriest, a soli 23 anni, vinceva i campionati del mondi di ciclismo su strada. A distanza di 35 anni, il campione trentino sta ancora festeggiando quell'incredibile trionfo, uno tra i tanti che ne hanno costellato la carriera che lo ha visto tra i protagonisti assoluti del ciclismo italiano e mondiale a cavallo degli anni 90.
A Fanpage.it, Maurizio Fondriest ha rivissuto i momenti più belli ("la Milano-Sanremo del '93, in un giorno davvero speciale"), ma anche le delusioni più cocenti ("andate a rivedere la volata dell'Amstel Gold Race '91, un vero furto"). Tra le sue attività attuali sempre legate al mondo del ciclismo ("abbiamo una società di scouting, e prossimamente alcuni miei ragazzi daranno soddisfazioni a tutti"), con un pensiero vivo alla responsabilità civile e alla sicurezza sulle strade ("siamo indietro rispetto ad altri Paesi, soprattutto per cultura"), si è parlato anche del ciclismo di oggi, con i suoi campioni ("su tutti van der Poel e Pogacar") e il panorama italiano ("desolante perché non c'è più nessuna azienda che investa ed è inspiegabile").
Maurizio sei stato recentemente in Portogallo, ovviamente in bici. E il motivo è stato davvero speciale…
Sì, i 35 anni dalla vittoria al Mondiale con un viaggio che abbiamo organizzato da Lisbona a Santiago di Compostela anche perché 5 anni fa, proprio per il trentennale avevamo fatto un viaggio molto simile e abbiamo avuto il desiderio di rifarlo cambiando percorso, percorrendo con le nostre biciclette la direzione del Cammino.
Una celebrazione che è anche occasione per ricordare un altro aspetto per te carissimo da sempre: la sicurezza sulle strade per i ciclisti.
Cinque anni fa avevamo portato con noi tredici maglie di ragazzi che erano morti sulle strade italiane andando in bici. Il tutto per sensibilizzare le persone sulla sicurezza stradale. In questi anni abbiamo fatto grandi passi avanti, ma ancora si deve lavorare tantissimo perché in Italia rispetto ad altri Paesi siamo ancora troppo indietro.
Anche rispetto al Portogallo?
Guarda, la cosa davvero impressionante in cui ci siamo imbattuti è che in Portogallo, come in Spagna, anche su strade trafficate c'è un rispetto totale verso i ciclisti. Nessuno ci ha mai suonato, nessuno ci ha mai superato quando non c'era lo spazio, nessuno si è permesso di avvicinarsi con l'auto. Voglio dire: nel nostro percorso abbiamo incontrato anche paesi poveri, ma con una cultura e un rispetto per il prossimo, enorme.
Cosa c'è che non funziona in Italia per la sicurezza stradale dei ciclisti?
In Italia manca semplicemente un aspetto fondamentale: la cultura. Altrove abbiamo toccato con mano che è possibile migliorare, è l'Italia e sono gli italiani che sono sbagliati.
Dunque, solamente una questione culturale o manca anche altro?
Servono anche leggi più severe, come in Portogallo dove non perdonano: devi rispettare per essere rispettato, ma è giusto così e deve essere così. E poi le strade sono tutte pensate per avere non una semplice pista ciclabile ma una vera e propria corsia laterale. Le ciclabili vanno bene, ma su strade importanti è necessario fare come loro: danno garanzie e sicurezza in più dedicando una vera e propria corsia. Addirittura in Spagna si può andare tranquillamente in coppia e non in fila indiana.
Oltre a celebrare i successi passati, oggi Maurizio Fondriest come trascorre la propria giornata?
A me piace andare ancora in bici appena posso, sono ambassador per Alpecin e, in accordo con la Gazzetta dello Sport attraverso la Moving Events, si organizzano queste attività e tanti viaggi. Normalmente siamo a 3-4 eventi all'anno tra giugno e a settembre, anche con scelte itineranti, come questo che stiamo abbiamo concluso. Oltre all'estero stiamo studiando anche itinerari italiani, al Sud soprattutto.
Attività legate sempre al mondo della bici, come il marchio che hai creato e che porta il tuo nome, ad esempio…
Oramai sono 30 anni che abbiamo il marchio di bici [la Fondriest Bici, ndr] che oggi è gestito dal Gruppo Esperia e siamo in una fase nuova, di rilancio del marchio. Anche se so che non è facile competere con i grossi gruppi.
Ma è vero che curi di persona ogni aspetto delle biciclette che vengono prodotte?
Sì, la tecnica mi piace moltissimo, da sempre: sin da quando ero piccolo ho sempre curato personalmente le mie biciclette, ed è una delle cose che mi appassiona ancora moltissimo anche adesso.
E poi, la tua altra attività legata a doppio filo col ciclismo, in quello che si può definire un vero e proprio scouting tra i giovani talenti…
E' una attività che da anni con Paolo Alberati e Andrea Bianco abbiamo deciso di intraprendere, ed è quella della gestione dei ragazzi per procura sportiva [la AF Cycling Academy, ndr]. Ma non svolgiamo solamente il lavoro di raccordo sui contratti tra corridore e società, desideriamo essere più dei talent scout, in aiuto e appoggio ai giovani: li aiutiamo a crescere per capire se questa sarà la loro attività un giorno.
E come sta andando? Qual è il panorama attuale del ciclismo giovanile?
Abbiamo giovani sia italiani, inglesi, colombiani e adesso arrivano anche alcune soddisfazioni che ci motivano ancora di più.
Ad esempio?
C'è Santiago Buitrago, che quest'anno ha vinto tappe al Giro, è arrivato 3° alla Liegi, 10° alla Vuelta. Un ragazzo che sta crescendo molto bene, è uno che ascolta e ci segue, molto intelligente. Poi abbiamo un bel gruppo di ragazzi giovani come Luca Vergalitto [che ha vinto nel 2023 l'Oberösterreich Rundfahrt, il Province Cycling Tour oltre alla classifica scalatori al Giro della Regione Friuli Venezia Giulia, ndr] che porta con sé una storia molto particolare e che stiamo seguendo da un anno. Poi sta facendo benissimo anche Francesco Busatto [settimo e migliore degli italiani nella prova in linea categoria juniores agli ultimi Europei 2023, ndr], con una storia altrettanto particolare: fino all'anno scorso nessuno lo conosceva, poi ha trovato continuità e ha iniziato a vincere ed è uno di quei ragazzi che rappresenta in modo preciso la nostra filosofia.
Ovvero?
E' quella di saper attendere, osservare e seguire: non quella che c'è adesso da molte parti, che se tra gli juniores non sei subito un fenomeno fai prima a smettere di correre. A molti ragazzi è necessario dare il tempo per crescere, anche fisicamente, perché non sono tutti campioni assoluti alla Evenepoel che saltano dagli juniores ad un Team World Tour, vincendo.
Ultimamente si è criticato i tanti giovani che hanno fatto il salto di categoria senza le qualità giuste. C'è davvero questa tendenza nel far bruciare le tappe ai ragazzi?
In parte è così, ma sono davvero pochissimi coloro che riescono a fare il balzo tra i professionisti, sono dei casi veramente isolati. Molti vanno nelle squadre development, delle continental di sviluppo affiliate direttamente alle squadre principali e non cambia tantissimo. La cosa che però le società giovanili sbagliano e in cui devono assolutamente migliorare è spingere soprattutto sulla tecnica in bicicletta. Che poi è proprio quello che serve per la sicurezza generale ed è importantissimo. Noi ad esempio puntiamo moltissimo su questo aspetto, lo ritengo fondamentale.
A proposito di giovani che si distinguono tra i dilettanti e che poi esplodono tra i professionisti, c'è stato anche un certo Maurizio Fondriest…
Sì, sì, io ho vinto a 23 anni il Mondiale ma già all'ultimo anno dilettanti avevo vinto tantissime corse. Forse ai miei tempi era più semplice, oggi tutto è cambiato. Oggi c'è una concorrenza molto più alta, con tanti ragazzi che arrivano da gran parte del mondo. C'è una base più ampia ed emergere diventa molto più difficile. Sicuramente è molto più difficile oggi rispetto ai miei tempi, questo è indubbio.
A proposito di quel Mondiale, in molti non si aspettavano la tua vittoria in una Nazionale con grandissimi nomi, giusto?
Io ero arrivato già 2° alla Milano-Sanremo. Poi, avevo ottenuto altri piazzamenti importanti. Terzo, il percorso era perfetto alle mie caratteristiche e Martini mi aveva chiamato e voluto e io ero andato a prepararmi al meglio sulle strade del Belgio. C'erano compagni importanti come Bugno, Bontempi, Argentin, tutti di grandissimo talento in Italia.
E un ragazzino di 23 anni come ha vissuto quella convivenza particolare?
Grazie ad Alfredo Martini che aveva l'abitudine di portare tutti i più forti del momento senza fare distinzioni. A chi andava dava la possibilità di esprimersi, senza filtri. Poi, la corsa è andata come andata, ho capito quale fosse la fuga decisiva, e poi c'è stata la volata vincente che tutti oramai conoscono…
Se questa è stata una delle tue più grandi gioie, c'è un tuo più grande cruccio?
Un grande cruccio? Sì, l'Amstel Gold Race del 1991 con la Panasonic. Perché è stata una vera e propria ingiustizia, un furto, non si può dire altro. Attaccai a 45 km dal traguardo, mi seguì Maassen e c'era anche De Wolf, che mi curavano perché andavo forte. Siamo andati di comune accordo fino poco prima all'arrivo, che ci giocavamo in due: io e Maassen.
E cosa accadde?
Io ho lasciato partire Maassen, poi sono partito anch'io e mi ha portato tutto sulla sinistra. Quindi sono uscito dalla parte destra e a quel punto mi ha portato via via dalla parte destra della strada. Una scorrettezza per cui non fu squalificato. E nemmeno la Panasonic non volle fare ricorso, forse per politiche di quel tempo. Sai, una squadra olandese che attaccava un corridore olandese…
Da come la rivivi, a distanza di oltre 30 anni ti brucia ancora...
Sì, pensa che ancora oggi quando ci incrociamo, Maassen mi chiede sempre se sono ancora arrabbiato con lui.
E lo sei?
Arrabbiato? No, però mi brucia perché sarei stato il primo italiano a vincere la Amstel, ma ora nell'albo d'oro oggi non ci sono e questo dispiace. Quella sì, è stata una vittoria rubata. Poi ho perso anche una Gand Wevelgem di un centimetro ma quello ci sta, fa parte delle regole del gioco. In quel caso è fortuna e sfortuna, non subentrano altri elementi esterni. Durante una carriera ci sono quei momenti.
Hai nominato la Panasonic che tu scelsi, malgrado squadre italiane di altissimo livello. Una decisione totalmente controcorrente, perché?
In quel periodo avevo avuto problemi con la mia squadra, la Del Tongo e contemporaneamente mi erano arrivate richieste importanti: c'erano ONCE, TVM e Panasonic. Mi piaceva molto la ONCE di Manolo Sainz ma io volevo fare bene le classiche, ho scartato la TVM che mi sembrava ad un livello organizzativo un po' inferiore e scelsi la Panasonic. A quel tempo era il top, un po' come la Ineos di oggi.
E tu mettesti a tacere i critici nel modo migliore, vincendo.
Sì, con la Panasonic il primo anno vinsi la Coppa del Mondo, il successo più importante dopo una scelta difficilissima che avevo fatto, per quell'epoca. Oggi andare a correre all'estero è molto più facile, invece allora era la strada davvero più difficile.
Poi, il 1993 con il record di vittorie e la 2a Coppa del Mondo con la Lampre. La migliore stagione?
Sì, i successi continuarono anche in seguito ed è vero, il 1993 è stato il mio anno migliore. Anche perché ho vinto la Milano-Sanremo in un giorno particolare: è nata mia figlia ed è stato uno dei giorni più belli in assoluto.
Una straordinaria coincidenza, come hai gestito una situazione così particolare?
Ancora oggi non si sa spiegare… avevo una particolare euforia che non ho mai più avuto. Andavo già forte, ma avevo quell'entusiasmo che mi ha dato una spinta in più proprio in quell'occasione. Io sapevo benissimo dove volevo vincerla e ce l'ho fatta, arrivando da solo: ed è stata una delle più belle giornate di sempre.
Italiani che vincono… un sogno. Oggi il panorama italiano è desolante, perché?
Molto desolante per quanto riguarda le squadre: non abbiamo nessun team World Tour e solo tre squadre professional ed è un problema soprattutto per i ragazzi. Per chi va forte forte no, ma per i più che possono fare una bella carriera ma non trovano dove correre e non hanno possibilità di farlo è davvero desolante. Ancora adesso non capisco come aziende importanti italiane non investano come succede in altri Paesi.
E a livello di singoli, dobbiamo rassegnarci?
C'è da spiegare un concetto: se hai un talento vero, non sai quando nasce, lo capisci solamente quando sboccia. E' una ruota che gira, può accadere ad ogni momento. Perché abbiamo un campione come Ganna? Perché ha talento, che è stato curato alla perfezione grazie a Della Vedova ma è soprattutto perché ha talento. Lo stesso discorso si può fare su Vincenzo Nibali: non è che in Sicilia si lavora meglio nel ciclismo, ma è perché è nato così, col talento. Questa è la realtà.
Ma il talento deve essere anche coltivato, si può fare qualcosa di più?
Uno Stato deve e può fare tanto, e adesso posso dire che siamo forse sulla strada giusta perché l'aggiornamento della Costituzione Italiana sullo sport è stato fondamentale. Essere diventato un valore tutelato significa avere la possibilità di un bacino più grande di giovani che lo praticano. Tutto ciò permetterà sicuramente di scoprire e coltivare nuovi talenti. Insomma, bisogna essere fiduciosi, dopotutto è la semplice legge dei grandi numeri…
Quindi bisogna semplicemente aspettare?
Penso che avremo in un prossimo futuro dei ragazzi che inizieranno a vincere. Diversi sono sulla strada buona, ma lo ripeto ancora: ai giovani bisogna dare il tempo di crescere, e prima o dopo qualcuno così riuscirà a emergere.
Intanto, però, all'estero ci sono fior di campioni che monopolizzano la scena…
Sono tanti i nomi ma non si deve fare questo errore: bisognerebbe ragionare per nazione in nazione. Valutare com'è la situazione in Belgio in Spagna, in Olanda e via dicendo. Analizzare Stato per Stato, in base ai bacini, ai praticanti. Altrimenti in questo discorso, l'Italia perderà sempre contro il resto del mondo.
Ma c'è qualcuno che al momento ti sta particolarmente entusiasmando?
Il Belgio, senza dubbio, perché ha tantissimi talenti rispetto ad nucleo generale non estesissimo. Il momento loro è favorevole e poi lavorano benissimo.
Tra i vari Vingegaard, Evenepoel, Pogacar, chi ti piace?
Senza dubbio Van der Poel. Lui è fortissimo per quanto riguarda le gare in linea, in assoluto. Poi, per i grandi giri e tra i più completi c'è sicuramente Tadej Pogacar: uno che corre con quella potenza difficile trovarlo. Non ce ne sono stati tanti e in questo momento è di certo il migliore in assoluto.
Poi, c'è chi ingaggia i migliori a suon di soldi: dunque anche nel ciclismo vige questa regola?
Da una parte è vero, è normale perché è sempre stato così e oltre alla Jumbo-Visma, ad esempio ci sono anche la UAE e la Ineos. Dove vedono talento vanno a prenderli.
Però c'è anche chi pur investendo non riesce a vincere, cos'ha dimostrato di avere in più la Jumbo-Visma che ha conquistato Tour, Giro e Vuelta?
C'è anche un grandissimo lavoro dietro, sono bravissimi e gestiscono bene. Certo, hanno la possibilità di pagare meglio di altre squadre e se ti prendi i talenti migliori hai più possibilità di vittoria. Ma resta sempre il discorso che i soldi aiutano, non garantiscono i successi. Non solo perché hai i soldi vinci, ci sono anche i meriti. Guarda la Ineos, ad esempio, ha fatto importanti investimenti ma ha sempre perso, dal loro punto di vista hanno fallito tutti i grandi appuntamenti.
Questo ciclismo moderno, fatto di tecnologia estrema, gps, radioline, tattiche a tavolino ti entusiasma?
Forse il ciclismo ha perso il suo romanticismo ma è figlio della realtà in cui si vive. Come tutte le cose, cambia anche lui e ci sono vantaggi e svantaggi che tengono in considerazione diversi aspetti come lo spettacolo. Oggi in una crono un ciclista sa perfettamente il proprio valore e seguendo i watt riesce ad andare all'andatura più congeniale.
Quando tu correvi però, questa possibilità non c'era, come facevate?
Ai miei tempi dovevi andare a sensazione e dovevi sviluppare una certa sensibilità. Capire come stavi e come stavi andando, rispetto alle tue forze. Ad esempio in una lunga salita oggi seguendo i numeri è quasi una ascesa scientifica. Però se ti coprono i watt, non hai più un riferimento e devi andare a sensazione. Ma c'è la tecnologia, ci si deve adattare, il confronto col passato non regge.
In chiusura, torniamo all'attualità: è giusta la polemica attorno Stefan Kung che doveva essere fermato dopo l'incidente agli Europei?
Assolutamente dovevano fermarlo. Quando vedi il casco in quelle condizioni non c'è scelta, era spezzato in due e lo si doveva fermare.
Eppure nessuno lo ha fatto. Interesse o superficialità?
In primis, il risultato era oramai già perso, non aveva senso sotto il profilo meramente sportivo continuare visto che poi è arrivato al traguardo lontanissimo dal primo posto. Fosse accaduto a 200 metri dall'arrivo, allora sarebbe stato comprensibile risalire e concludere. Ma non era quello il caso. Poi, quando vedi un casco così disintegrato, fermi il ciclista. Non so perché non lo abbiano fatto, ma era da fermare. Punto.