Vediamo il 10 e vogliamo un Insigne che non esiste: il suo vero ruolo
Lorenzo Insigne, soprattutto in Nazionale in quanto i tifosi del Napoli guardando le sue partite tutti i weekend ne hanno una figura con i contorni più chiari, vive in una bolla d’aria dove odio e amore si confondono. C’è chi ammira le sue cose, che magari sono piccole e spesso simili, ma sono evidentemente fatte bene (altrimenti non sarebbe un titolare inamovibile in azzurro), altri invece vorrebbero di più, molto di più. Sia a chi basta Insigne come calciatore, sia a chi invece lo critica con costanza, la loro mente attiva nei suo confronti un classico processo gestaltico. Loro (Noi) guardano il numero che ha sulle spalle, guardano la maglia azzurra, guardano la posizione in campo e per il principio di somiglianza lo vogliono appunto simile ai numeri 10 che hanno fatto grande la storia della Nazionale italiana.
Vorrebbero in lui almeno una delle caratteristiche dei nostri campioni del passato, la magia dei piedi Baggio, la fiducia nell’andare oltre di Totti, la repentina fantasia di Donadoni (aveva il 7 ma che 10 era?), la visione panottica di Antognoni, fino ad arrivare addirittura alla grazia totale di Rivera, per chi all’epoca c’era. Insomma cerchiamo in base al principio sempre gestaltico di continuità e destino comune un calciatore che percorra lo stesso cammino di questi e sia un 10 azzurro che prenda dal passato e aggiunga del suo, continuando il cammino e la storia (o lo storytelling, fate voi).
Lorenzo Insigne nel 2010 arriva in prestito al Foggia in Lega Pro ed è un’aletta con buona tecnica ma bassa velocità di punta.
Al Foggia c’è un signore che allena, si chiama Zdeněk Zeman e gli cambia la vita. Gli chiede di non improvvisare sull’esterno puntando l’uomo e cercando di trarre vantaggio da un superamento dello stesso, ma di entrare nel campo e palleggiare con gli altri uomini dell’attacco. Da quella posizione nel mezzo spazio Insigne ebbe fin da subito il compito di creare triangoli con i compagni oppure di servirli nei tagli profondi che le squadre di Zeman possono ancora insegnare a tutti. Il signore di cui sopra lo porta con sé anche a Pescara in serie B, dove trova Immobile e Verratti con cui costruire un dialogo. La sua propensione al ricamo offensivo cresce ancora di più.
Torna a casa base, al Napoli che ne deteneva il cartellino e dopo un anno di Mazzarri, ne fa due poi con Rafa Benítez, altro allenatore che da lui vuole soprattutto aiuto nella costruzione della manovra, tanto è vero che Hamsik gioca due brutti anni perché costretto a ricevere spesso palla spalle alla porta nel centrocampo 2-3 del tecnico spagnolo.
Nel 2013 poi arriva a Napoli Maurizio Sarri. A Empoli aveva giocato con Saponara mezzapunta e vuole riportare lo stesso sistema, adattandolo a Insigne, anche nel Napoli. Perde con il Sassuolo e pareggia in casa con la Sampdoria. Insigne non gioca male da 10 puro, ma non ha due cose fondamentali per giocare in quel ruolo: non ha il tempo perfetto della rifinitura, non è Luis Alberto in pratica, e non ha il guizzo per creare scompensi spaziali alle difese avversarie, non è Neymar in pratica. Sarri, con l’intelligenza che lo contraddistingue, comprende che per far rendere al meglio il suo calciatore deve tornare a dargli un compito di intelaiatura del gioco e dalla quarta partita di campionato in poi, vinta 5-0 contro la Lazio, tutto si riassesta.
Negli anni di Sarri Lorenzo Insigne diventa pienamente un determinato tipo di calciatore, che ha molto difetti, molti pregi, ma ha soprattutto specifiche caratteristiche. Non è un 10 classico, non è un immaginatore di gioco (come Iniesta), non apre spazi inesistenti (come il Pedri contro la Svezia per fare un esempio vicinissimo), non è uno stoccatore (come Reus), non è un funambolo (come Sané). Non è tante cose in effetti, ma non trovi nessuno di questi nella tua area di rigore a coprire sul terzino avversario, compito mandato a memoria con Sarri e oggi mostrato in tutte le partite e forse non trovi nemmeno un regista offensivo così lineare come lui. La definizione giusta credo sia proprio quella di regista offensivo, ovvero un calciatore che sviluppa con costanza i triangoli di gioco con cui creare il gioco sul lato forte, per poi “risolvere” l’azione offensiva in quel settore di campo con un tiro o un passaggio filtrante, oppure ribaltare tutto sul lato debole, come la connection ormai diventata brand con Callejon ci ha insegnato negli anni napoletani.
L’unico calciatore a cui mi sentirei di avvicinare Insigne è David Silva, con i distinguo del caso anche perché lo spagnolo ha giocato in squadre di livello superiore, dimostrando di essere superiore al nostro calciatore, ma è secondo quel modello che bisognerebbe considerare Insigne. Un regista offensivo perfetto per il gioco di posizione, bravo nel vedere le linee di gioco secondo un doppio senso, ovvero nella capacità di smarcarsi per farsi trovare tra le linee e allo stesso tempo essere bravo anche nel saper servire i compagni col tempo giusto mentre si muovono tra le stesse linee. In fondo Insigne è un giocatore moderno, costruito per un calcio contemporaneo, ancora più perfetto se associato a calciatori di un determinato tipo. Se vogliamo valutarlo pensando a Baggio o Totti sbagliamo tempi, modi e contesti. Paragoniamo pere e mele si dice in gergo e in questo caso è ancora più vero.