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Sacchi ingrato con Baggio per il rigore sbagliato in Italia-Brasile a Usa ’94: dice due grandi bugie

A 30 anni dalla finale dei Mondiali persa a Pasadena ai rigori, l’ex ct dell’Italia commenta così quella sconfitta dolorosa: “La differenza tra la mia Italia del 1994 e l’Italia di Lippi del 2006 che ha vinto è in un rigore: Roberto Baggio lo sbaglia, Fabio Grosso lo segna”. Ma non dice tutta la verità.
A cura di Maurizio De Santis
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Il 17 luglio 1994 l'Italia perse ai rigori la finale dei Mondiali contro il Brasile negli Usa. Sono trascorsi 30 anni da allora, quella sconfitta è una ferita ancora aperta. Arrigo Sacchi rammenta quella delusione dicendo due bugie, cose sbagliate e altrettanto ingiuste, sia per la profonda ingratitudine che traspare dalle sue parole nei confronti di Roberto Baggio sia perché menzionare il suo errore, quale unico termine di paragone tra una batosta dolorosa e una gioia immensa come la vittoria in Coppa del Mondo in Germania, è qualcosa di intellettualmente disonesto. Puntare l'indice contro uno solo per una storia finita malissimo e svilire la portata di un'altra andata benissimo è il brutto effetto che fa. Ed è tanto più brutto perché si tratta di due esperienze completamente diverse per gli interpreti e per l'interpretazione del gioco, per il contesto storico (lo scandalo di Calciopoli accompagnò quella spedizione) e quello ambientale, perché diversi erano gli avversari.

"La differenza tra la mia Italia del 1994 – sostiene nell'intervento sulla Gazzetta dello Sport – e l'Italia di Lippi del 2006 che ha vinto è in un rigore: Roberto Baggio lo sbaglia, Fabio Grosso lo segna".

Sacchi non dice tutta la verità. Anzi, mente proprio quando menziona solo il penalty fallito dal ‘Divin Codino'. A ‘tradirlo' furono prima di tutto due milanisti: Baresi calciò malissimo il primo della serie e ci mise addosso un pesante fardello, Albertini ed Evani ci tennero ancora in piedi, Massaro si fece parare il quarto. Poi toccò a Baggio che ebbe il ‘torto' di aver mancato quello decisivo ("volevo sotterrarmi", ha ripetuto più volte) dopo essere stato proprio lui, con le sue prodezze, ad aver preso per mano una squadra che senza i suoi colpi si sarebbe fermata molto prima, schiantandosi già agli ottavi contro la Nigeria, dopo un girone superato per il rotto della cuffia. E sarebbe stato un disastro in termini sportivi oltre che tattici perché del gioco fluido, aggressivo e avvolgente ipotizzato/ambito si vide nulla.

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Difesa forte e contropiede micidiale grazie alla classe dei singoli (anzitutto di Baggio): si andò avanti così come da tradizione identitaria spazzando via ogni ipotesi di calcio totale. E qui la memoria di Sacchi o ha un vuoto improvviso oppure tutto finisce in un grande buco nero fatto di risentimenti personali che ancora lo consumano per la difficoltà ad accettare che è andata male e basta a prescindere da tutto. A tarpare le ali alle Super Aquile fu Baggio: sotto di un gol (Amunike, 26°), fu il ‘dieci di Caldogno a pareggiare all'89° e a raddoppiare su rigore al 102°. A matare la Spagna nei quarti fu Baggio: gol all'88°, quello del 2-1 dopo le reti di Dino Baggio e Caminero. A schiantare la Bulgaria in semifinale fu Baggio (doppietta nel primo tempo e poi successo per 2-1 sofferto).

"Il fatto è che alla finale con il Brasile ci arrivammo in condizioni difficili. Fisicamente eravamo cotti, i giocatori non avevano più muscoli nelle gambe. Me lo dissero anche i medici e i massaggiatori: "Non c’è più niente da massaggiare…". E allora se la squadra era "cotta" e lo stesso Baggio – come tutti – non era fisicamente integro perché dare l'impressione che la responsabilità sia stata solo sua riducendo tutto a quel rigore che lo stesso Codino ricorda con amarezza ("ci penso ancora prima di dormire")?

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C'è ancora dell'altro che Sacchi tira in ballo: dà, in buona sostanza, colpa alle scelte della politica se la sua Nazionale ha pagato lo sforzo fatto per sostenere (anche) le sollecitazioni del clima e attacca i giornalisti che gli avevano già allestito la messa funebre, pronti a celebrarla in caso di eliminazione.

"Nei giorni precedenti non ci allenammo. Tutta colpa della prima parte del torneo giocata sulla costa est degli Stati Uniti. Caldo afoso, umidità al cento per cento, temperatura mai sotto i trenta gradi, si doveva dormire con l’aria condizionata. Io l’avevo spiegato ai dirigenti della Federcalcio che bisognava cercare di andare a giocare sulla costa ovest, perché il clima era migliore. Niente da fare: decisero i politici, Giulio Andreotti in particolare. Volle che l’Italia fosse lì a est, dove c’era la più popolosa rappresentanza di emigrati. Matarrese, presidente della Federcalcio e democristiano della corrente andreottiana, non poté opporsi. Per farmi digerire la pillola mi dissero: L’Italia avrà tanti tifosi a sostenerla".

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Ecco perché secondo Sacchi quello fu un Mondiale in salita, non certo per le difficoltà palesate dalla sua squadra e dall'impostazione che forse non era proprio nelle nostre corde, né per i rapporti tesi con alcuni calciatori (Beppe Signori, oltre a Baggio) a causa delle scelte integraliste. E allora cita Baresi "perso subito", quale ostacolo trovato lungo il cammino, e gonfia il petto quando aggiunge che "arrivare a un passo dalla gloria dev'essere un motivo d'orgoglio per noi italiani. Invece molti connazionali erano contenti della nostra sconfitta ai calci rigore, per non parlare del giornalisti che avevano già preparato il "de profundis" contro a Nigeria".

È invece frutto della sua intuizione miracolosa se, in svantaggio e senza Zola (espulso), nonostante l'impossibilità di cambiare Baggio ("ha male al ginocchio e chiede di essere sostituto, ma io ho fatto già due cambi"), l'Italia fa il miracolo e si qualifica. Lì la buona sorte amica e il guizzo del ‘dieci' sembrano avere un ruolo marginale nella narrazione. Il resto è solo colpa di un Codino nel quale è inciampato. Sarebbe più giusto dire: abbiamo perso perché gli altri sono stati più bravi di noi. Anche perché bravi allora non lo siamo mai stati. E questa volta fa ancora più male.

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Da venticinque anni nel mondo dell’informazione. Ho iniziato alla vecchia maniera, partendo da zero, in redazioni che erano palestre di vita e di professione. Sono professionista dal 2002. L’esperienza mi ha portato dalla carta stampata fino all’editoria online, e in particolare a Fanpage.it che è sempre stato molto più di un giornale e per il quale lavoro da novembre 2012. È una porta verso una nuova dimensione del racconto giornalistico e della comunicazione: l’ho aperta e ci sono entrato riqualificandomi. Perché nella vita non si smette mai di imparare. Lo sport è la mia area di riferimento dal punto di vista professionale.
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