Se lo dice Picasso, allora è vero, perché chi sa cambiare l’arte e il pensiero delle persone scopre delle verità profonde, a cui molti non possono accedere. Il grandioso pittore spagnolo ha detto: “Il genio copia, il mediocre imita” e se è vera tutta questa premessa, allora Roberto Mancini è un vero genio. Come ha fatto a creare in così poco tempo una Nazionale così organizzata, sicura di sé, brava nel muoversi sul campo e capace di imporsi dal primo minuto, andando pure contro la nostra tradizione? Aveva una sola soluzione. E ripeto, è stato geniale nel sceglierla. Non tutti sanno o vogliono farlo.
L’Italia che Ventura aveva portato al disastro non aveva grandi picchi tecnici, ma soprattutto non aveva alcuna idea di gioco. Dalla partita contro la Spagna a Madrid questa pochezza si è unita all’alterigia dell’esperienza che avrebbe dovuto risolvere il problema svedese e ci ha spianato la strada verso l’apocalisse. La Gazzetta dello Sport il giorno dopo la non qualificazione ai Mondiali di Russia titolava “Fine” ed era proprio quello a cui aveva portato la proposta tecnica di Ventura. Ma anche intorno al cratere di una bomba atomica la vita può resistere o rifiorire e in Italia in quel momento un certo Maurizio Sarri stava giocando il miglior calcio del Paese e gridava fortemente che c’era ancora vita.
Mancini ha ascoltato quel grido e, da genio alla Picasso, si è messo a studiare e conoscere alla perfezione quel modello di calcio, che è poi il Juego de Posición di Guardiola al Barcellona, che viene dalla zona-pressing di Sacchi, a sua volta ispirato al Totaalvoetbal di Rinus Michels, perché siamo sempre figli di qualcuno o, se vogliamo rifarci per forza ad un proverbio napoletano: “Nisciun nasc’ ‘mparat”, nessuno nasce ‘imparato'.
Mancini ha rapidamente compreso che l’unico modello di calcio futuribile in quel momento espresso in Italia era quello che per convenzione chiamiamo Sarrismo e ne ha piano piano riportato i principi in Nazionale. Ne ha importato anche i calciatori, del Napoli prima, del Chelsea poi, della Juve in un terzo momento.
In un’Italia di titolarissimi cinque calciatori hanno giocato con Sarri e due, Immobile (in formissima credo che il 9 sia lui) e Verratti lo hanno fatto con Zeman, altro cultore di un gioco simile a quello sarriano. Se poi appiccichiamo sul vetro le formazioni del Napoli 2016-2017 e quella possibile di questa Nazionale, tanti margini non se ne vedono: Donnarumma-Reina; Florenzi-Hysaj, Bonucci-Albiol, Chiellini-Koulibaly; Jorginho-Jorginho, Locatelli-Hamsik, Barella-Allan, Emerson-Ghoulam; Chiesa-Callejon, Immobile-Mertens, Insigne-Insigne.
Non scopro l’acqua calda ovviamente. Se Bearzot in alcune partite schierava 9 calciatori della Juventus di Trapattoni, era ovvio che chiedeva cose molto simili a quelle trapattoniane ed è, lo ripeto per l’ennesima volta, una scelta geniale, anche perché denota modestia, caratteristica dei migliori da sempre.
L’unico elemento che stona è che questo marchio sarriano sulla Nazionale è innominabile, se non si vuole essere scomunicati. Dopo la partita contro il Lione del 7 agosto, i media italiani hanno portato avanti una completa damnatio memoriae di Maurizio Sarri, non solo cancellandone il presente, il futuro, ma anche il passato, non osando mai sottolineare un’influenza più che evidente su una delle squadre nazionali più interessanti del panorama calcistico mondiale.
Mancini ha preso il Sarrismo, parlato con gli uomini allenati da Sarri e ha plasmato la migliore squadra possibile rispetto al punto in cui eravamo. Per questo è stato geniale. Ma dimenticare Maurizio Sarri perché non è più un nome di moda, non è giusto.