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Pippo Inzaghi racconta il suo male di vivere: “Viaggiavo con un borsello pieno di cd con ecografie”

L’ex calciatore e tecnico del Milan a cuore aperto nel libro ‘Il momento giusto’, confessa anche un lato inedito della sua vita legato a un paio di eventi traumatici: “Il mio corpo mi mandava segnali inequivocabili di malessere. Ho avuto paura. Ho temuto di avere qualcosa di grave, perfino la Sla”.
A cura di Maurizio De Santis
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L'urlo di Super Pippo, San Siro esplode per una sua rete.
L'urlo di Super Pippo, San Siro esplode per una sua rete.

Sul filo del fuorigioco, della passione, della vita. Il calcio è stato (ed è) tutto per Filippo Inzaghi, sempre a cavalcare "Il momento giusto" là in mezzo, nel cuore dell'area di rigore, tra una selva di gambe e strattoni, col fiato sul collo dei difensori. Il senso di Pippo per il gol era una categoria dello spirito: qualcosa che hai dentro oppure no, non lo puoi spiegare nemmeno se scomponi i movimenti con l'aiuto della tecnologia e li mandi in loop in tv. È istinto puro, talento che balena come un lampo.

"Non ho bisogno di guardare la porta, non mi è mai servito: io la sento". È la frase del suo libro (scritto con il giornalista della Gazzetta, Olivero) che si avvicina molto a una spiegazione tangibile dello strano effetto che fa vederlo in azione. L'ex attaccante la pronuncia a corredo di una delle reti che non dimenticherà mai: quella del suo addio da calciatore al Milan.

Ha vissuto quegli anni ruggenti con un sentimento profondo, viscerale, che sarà anche la causa del male oscuro che lo marcherà stretto e per un po'. La felicità per lui era in quell'attimo di dimenticanza che passava tra l'intuito innato e il boato del suo pubblico che lo saluterà per l'ultima volta nella partita del Meazza contro il Novara.

L’ultimo tiro della mia vita è un gol – si legge in un passaggio del testo -: non ho più alcun dubbio, non mi farò tentare da nessuna offerta, questa è la mia ultima partita. È finita. Prima di tornare a centrocampo mi fermo, mi giro verso i tifosi, mi inginocchio, sollevo la maglia e la bacio. Un bacio commosso, dolce, gonfio di eterna gratitudine.

Pippo Inzaghi e una vita dedicata al Milan, da calciatore e poi da allenatore.
Pippo Inzaghi e una vita dedicata al Milan, da calciatore e poi da allenatore.

Inzaghi ha interpretato sempre così il suo ruolo, mescolando senso della posizione e accelerate improvvise: a strappi. Uno degli ultimi fu doloroso ma si trattò d'altro. Lo subì e fece male davvero. Non era più questione di campo ma di scelte che andavano oltre la sua volontà e l'attaccamento alla maglia. Fosse stato per lui sarebbe rimasto al Milan anche in una veste più defilata, non avrebbe mai scocciato l'allenatore per giocare e basta, né avanzare chissà quali richieste in virtù della sua storia in rossonero. Teneva molto a quella squadra per abbandonarsi a vezzi del genere, eppure non bastò per essere confermato. Aveva raggiunto l'accordo con la società ma il tecnico di allora, Massimiliano Allegri, aveva altri programmi in testa.

Io e il Milan nella primavera del 2012 avevamo trovato un accordo per prolungare di un anno il mio contratto. Io sarei stato un importante collante nello spogliatoio che nel giro di poco tempo aveva perso Maldini, Pirlo, Nesta, Gattuso, Seedorf. Elementi di spessore che avevano lasciato un vuoto profondo. Non avrei accampato alcuna pretesa… Galliani era felice di aver trovato insieme a me questa soluzione. Allegri invece la bocciò, non mi voleva più nello spogliatoio e lo disse al dirigente chiedendo che non mi fosse rinnovato il contratto. Per me fu una mazzata.

Certe cose sono un trauma anche se sai che fanno parte del gioco. Inzaghi incassò il colpo e guardò avanti. Non indossò altra maglia che non fosse quella del Milan e una volta appese le scarpette al chiodo si mise al servizio del club in un altro modo, da allenatore delle giovanili.

La vittoria della Champions uno dei momenti più belli in rossonero.
La vittoria della Champions uno dei momenti più belli in rossonero.

Nemmeno immaginava che a distanza di qualche anno avrebbe addirittura retto le sorti della prima squadra. Si tuffò anima e corpo in quella che rappresentava molto più che un'occasione professionale: era tecnico del "suo" Milan, si fece carico della responsabilità e dell'onore, ringraziò per la fiducia e fece tutto quanto era in suo potere per deludere il suo popolo, la dirigenza, se stesso.

Mai sarebbe riuscito a perdonarsi. E quando nel giugno del 2015 si chiuse la sua avventura in panchina vide crollare tutto il suo mondo. Inzaghi entrò in una dimensione cupa che mai aveva provato. Si sentiva smarrito, confuso, intimorito. Era piombato nel lato oscuro dal quale ha fatto fatica a smarcarsi.

Nel giugno del 2015 si era chiusa la mia avventura alla guida del Milan. I risultati non erano stati buoni ma con onestà intellettuale nessuno può sostenere che si potesse fare molto di più. Io, però, a quel club sono così legato che avrei dato chissà cosa per regalare grandi soddisfazioni ai dirigenti e ai tifosi. Non esserci riuscito mi fece male, non solo al morale ma anche al fisico.

In gol come un lampo, il killer instinct di Inzaghi è proverbiale.
In gol come un lampo, il killer instinct di Inzaghi è proverbiale.

Quando tutto finì Inzaghi entrò in una dimensione cupa che mai aveva provato. Si sentiva smarrito, confuso, intimorito, svuotato, come precipitato in un incubo. Era piombato nel lato oscuro dal quale ci ha messo un po' per smarcarsi. Non era come in campo, non era come ‘sentire' la porta né sapere dove sarebbe andata la palla. Aveva capito che tutte quelle cose non gli sarebbero bastate per risolvere la questione. "Si dice che il tempo guarisce ogni ferita e ne ero convinto. Quello fu l'anno più difficile della mia vita", è la confessione a cuore aperto. Pippo non si sentiva più super, aveva bisogno d'altro per ritrovarsi.

Dopo l'addio al Milan iniziò un periodo molto più difficile di quello che avrei immaginato. Partii per le vacanze ma sull'aereo mi venne un attacco di panico: non mi era mai successo, la tensione che avevo accumulato in quell'esperienza stava venendo fuori. Fu il primo segnale di un malessere profondo.

L'ex punta descrive in maniera molto efficace quello stato d'animo persistente e logorante. Bastano alcuni passaggi per averne contezza. Non serve descriverli, è sufficiente leggerli di getto come lui stesso ne ha parlato.

Nell’autunno del 2015 per la prima volta il pallone era sgonfio: non rimbalzava più. E non riuscii ad assorbire la lontananza dal mio mondo, dal profumo dell’erba, dalla sacralità dello spogliatoio. Mi alzavo al mattino e non sapevo come arrivare a sera. Andavo in palestra, ma senza entusiasmo, solo per far trascorrere il tempo, riempire la giornata ed evitare che la noia e lo sconforto prendessero il sopravvento.

Da tecnico del settore giovanile alla prima squadra, la parabola di Super Pippo sulla panchina del Milan.
Da tecnico del settore giovanile alla prima squadra, la parabola di Super Pippo sulla panchina del Milan.

Somatizzò ogni cosa, precipitò in quella spirale chiamata male di vivere. Nemmeno il difensore più arcigno lo ha soffocato tanto in carriera. La vita fuori dal campo è un'altra cosa e non si è mai davvero preparati ad accoglierla, nel bene e nel male.

Il mio corpo mi mandava segnali inequivocabili di malessere. Mi sono spaventato. Anzi, lo dico chiaramente e senza vergogna: ho avuto paura. Ho fatto quattro gastroscopie e altre analisi poco piacevoli, viaggiavo sempre con un borsello pieno di cd con ecografie e risonanze che mostravo a vari specialisti. Ho temuto di avere qualcosa di grave, perfino la Sla.

In quell'anno sabbatico Inzaghi è cresciuto, s'è fortificato, è tornato Super Pippo, ha fatto tesoro e s'è rimesso in gioco, ha trasformato le energie negative in forza. Ed è ripartito. Venezia, Bologna, Benevento, Brescia e infine Reggina le nuove tappe della carriera di allenatore. Il peggio è passato, il meglio deve ancora venire.

Sono stati mesi di disagio e sofferenza, in cui faticavo a trovare una via d’uscita. Qualcuno lo chiama male di vivere, qualcuno in un altro modo, io ho preferito dribblare definizioni e diagnosi e affrontare la realtà. Ho capito qual era il problema e l’ho superato poco alla volta, circondandomi dell’amore della famiglia. I miei genitori sono stati eccezionali: hanno compreso ciò di cui avevo bisogno.

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