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Perché non è colpa del calcio italiano se la Juve continua a fallire in Champions

L’eliminazione della Juve in Champions contro il Villarreal non è una sconfitta del calcio italiano, per quanto in atavica crisi di competitività a livello europeo, ma un fallimento costruito dai bianconeri un mattoncino dopo l’altro.
A cura di Sergio Chesi
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È quel momento dell'anno in cui le giornate si allungano, la primavera avanza a passo deciso e il calcio italiano si fa il solito esame di coscienza dopo aver salutato in blocco la Champions League alle prime partite che contano davvero. Che da anni l’intero movimento stia vivendo nell’ombra è un fatto: delle 19 squadre che abbiamo presentato in Champions nelle ultime cinque stagioni, solo quattro sono arrivate ai quarti (l’ultima è stata l’Atalanta due anni fa) e appena una in semifinale (la Roma nel 2018). La lenta, costante e inesorabile flessione è una tendenza ormai acclarata, con una serie di ragioni periodicamente esplorate. Eppure ridurre l’eliminazione della Juventus ad una sconfitta del sistema, narrazione molto gettonata nelle ore successive alla disfatta con il Villarreal, è un esercizio di mira sbagliata.

Ieri sera ha fallito soltanto la Juve, che nella galassia del calcio italiano è un pianeta a parte. Non a caso è stata l'unica squadra italiana ad avvicinarsi davvero alla vittoria della Champions nell'ultimo decennio, sorretta da piani aziendali e progetti tecnici inarrivabili per chiunque altro nel nostro umile cortile. Il punto è proprio lì: dal 2018 in avanti la Juventus sta pagando il conto salatissimo di una concatenazione di scelte sbagliate, sul piano strategico e sul campo.

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L'acquisto di Cristiano Ronaldo è il punto di non ritorno, la scintilla che innesca una serie di nefaste conseguenze in termini di mosse societarie e tecniche. Un all-in che risucchia buona parte del budget e costringe ad accontentarsi su tutto il resto (arrivando comunque a spendere sul mercato oltre 500 milioni nel giro di qualche sessione). Il risultato è stato il depauperamento progressivo della rosa, drammaticamente svuotata di qualità in particolare a centrocampo e nelle alternative.

Il tutto, nel contesto di una profonda confusione tecnica nata ai piani alti, trasferita agli allenatori che si sono avvicendati e inevitabilmente trasmessa ai calciatori in campo. Un giro iniziato nella primavera 2019, con la separazione di Allegri, che ha portato nuovamente al punto di partenza la scorsa estate. Scegliendolo per la seconda volta, la Juve ha sposato di nuovo quell'idea di calcio che aveva già bocciato e che continua a mostrare la propria inconsistenza non appena la posta in palio si alza.

Quella filosofia sparagnina e speculativa brutalmente sintetizzata nella teoria del "corto muso" che pure è riuscita a raccogliere proseliti strada facendo, nonostante l'evidenza dei fatti – svariate partite vinte con sforzo così minimo da essere allarmante, calciatori talvolta spaesati dinanzi alla prospettiva di dover costruire gioco – e dei risultati. La Juve si era qualificata a questa Champions solo all'ultima giornata e anche quest'anno ha dovuto faticare per rientrare nelle prime quattro posizioni dopo il pessimo avvio.

Non è più il tempo in cui forse sì, il calcio italiano era davvero poco allenante per una Juve capace di vincere il campionato in pantofole. Il livello oggi è questo: una squadra che deve sudare per qualificarsi alla Champions e viene rispedita a casa non appena incontra un avversario mediamente organizzato della borghesia europea. E per colpe soltanto sue.

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